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«Meglio tutelare i diritti della madre L’embrione non è ancora una vita»

«Meglio tutelare i diritti della madre L’embrione non è ancora una vita»

Monica Marcenaro

da Milano

Vorrebbe continuare a vivere «in paese laico dove le leggi sono l’espressione della volontà della maggioranza». Proprio per questo Carlo Flamigni, ordinario di Ginecologia all’università di Bologna e membro del Comitato nazionale di bioetica, voterà sì al referendum.
Professor Flamigni perché è contro la legge 40?
«Sono un laico, ma come tutti ho fatto bagni nella morale cattolica. Credo, però, che le norme debbano essere condivise da tutti, da qui il mio appoggio al referendum. La laicità di un sistema è garantita da un governo in grado di far convivere posizioni diverse: pur non approvando la legge in questione, ne rispetterei i dettami ben volentieri se è quello che vogliono la maggioranza degli italiani».
L’embrione è un individuo fin dal suo concepimento?
«No, anche se è sicuramente una cosa preziosa. Ci sono almeno sette differenti posizioni su quando inizia la vita, per me l’embrione diventa una persona quando sua madre l’accetta nel grembo. Se la legge è ispirata a criteri di precauzione nei confronti dell’embrione proprio perché non si sa quando diventa individuo, io ho altre precauzioni e responsabilità come, per esempio, quelle nei confronti della madre. Anche sotto questo aspetto bisognerebbe trovare delle mediazioni e garantire, per esempio, una tutela progressiva all’embrione».
È giusto poter selezionare gli embrioni, cioè andare a vedere con la diagnosi pre-impianto se il futuro bambino è geneticamente sano? Non c’è il rischio di selezionare individui migliori?
«Il pericolo dell’eugenetica non esiste perché nessuno al mondo è in grado di farla: non sappiamo, infatti, quali geni codificano per gli individui migliori. Le limitazioni imposte dalla legge 40 sulla selezione sono scaturite dalla preoccupazione circa un uso anormale, superficiale e sciocco degli strumenti che oggi abbiamo a disposizione. Per ovviare a tanta ansia basterebbe fare un elenco delle malattie drammatiche su cui ai genetisti è consentito andare a indagare».
Perché ritiene assurdo il limite di produrre tre embrioni per volta?
«Le gravidanze sono diminuite del 22 per cento stando alle rilevazioni ufficiali, anche se ho dati peggiori. In ogni caso non sono le ripetute stimolazioni ormonali a cui deve essere sottoposta una donna il danno maggiore, bensì il ripetersi delle delusioni. Il vero dramma è psicologico: ogni impianto che non arriva a buon fine è vissuto come un fallimento. Questa legge penalizza sia le donne giovani negando loro la possibilità di congelare gli embrioni soprannumerari che fino a un anno fa, grazie alla maggior quantità di ovociti, si riuscivano a ottenere. Sia le donne oltre i trentasei anni che hanno molte meno chance: tre delle loro uova non diventano mai tre embrioni, forse due, più spesso uno solo.
La legge impedisce di trovare soluzioni per pazienti affetti da malattie degenerative perché blocca la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Ma questa potrebbe essere davvero la strada futura per la cura di Parkinson e Alzheimer?
«Proprio Angelo Vescovi, portabandiera del fronte dell’astensione al referendum, scrive nel suo libro che la ricerca deve battere tutte e due le strade: sia quella sulle cellule staminali adulte, sia sulle staminali embrionali. Da indagini condotte negli Stati Uniti su quali siano i filoni della ricerca biologica più promettenti per essere trasferiti nella pratica clinica, è emerso che tutte le ipotesi sono interessanti ma quelle più utili riguardano proprio le cellule staminali embrionali che a oggi, infatti, hanno ricevuto la maggior quota di finanziamenti. Essendoci delle speranze, non si possono spegnere e quello che chiediamo è solo di poter utilizzare gli embrioni abbandonati».
È giusto lasciare la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa? Nella sua lunga esperienza clinica quante coppie si sono dichiarate disposte, pur di avere un figlio, a ricevere il seme di un donatore esterno alla coppia?
«Almeno il 10 per cento: su trentamila cicli di fecondazione assistita in un anno in tutta Italia, almeno tremila coppie ricorrevano alla donazione di gameti. E non sono poche. Oggi sono costrette a emigrare: chi può permetterselo va in altri Paesi europei con tutte le garanzie scientifico-sanitarie del caso, altre sono costrette ad accontentarsi e a fare scelte di serie B.

È la disponibilità di portafoglio a segnare il confine».

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