Mario Monti è arrivato, durante il suo trionfale viaggio americano, a toccare il punto dolente: fatta l’Italia, come già diceva Cavour, bisogna fare gli italiani. Ma gli italiani non si sono lasciati fare da nessuno e persino la dittatura fascista, con tutte le sue uniformi e grida stentoree non arrivò a scalfire la natura dell’italiano come disse Mussolini ad un giornalista americano quando confessò che: «Governare gli italiani non è impossibile. È inutile». Ma Monti, la cui mentalità è un crocevia di calvinismo, efficientismo gesuita, illuminismo autoritario e cultura anglosassone, pensa che il passaggio a Nord Ovest per traghettare la mentalità italiana in Occidente sia ancora possibile e che si possa «sperare di riuscire a cambiare il modo di vivere degli italiani introducendo maggiore merito e concorrenza, perché in caso contrario le riforme che stiamo facendo sarebbero effimere».
«Merito e concorrenza» vogliono dire rispetto del valore del singolo, fine dell’appiattimento di massa, accettazione delle regole. Dirlo sembra facile: tutti d’accordo. Farlo è un altro paio di maniche. Quel che ha in mente Monti lo capisce in particolare chi ha vissuto all’estero in un Paese efficiente, specie se anglosassone. Ma lo sanno anche gli immigrati meridionali che si sono piemontesizzati. Il cambio di passo si ottiene con una rivoluzione culturale e con punizioni non soltanto esemplari, ma costanti per tutti. Appena sbarcato in America rimasi scioccato vedendo che la polizia di New York usava delle auto civetta per attirare in divieto di sosta automobilisti con scarso senso civico per castigare la loro indole più che per il loro delitto: le macchine dei colpevoli venivano deportate in un hangar a cento chilometri da Manhattan dove potevano essere riscattate dal conducente dopo una sfibrante attesa di tre ore al gelo invernale e senza una sedia. Dopo aver pagato quasi cinquecento dollari i colpevoli dovevano poi subire una strigliata a bruttissimo muso di uno sceriffo che impartiva lezioni di educazione civica. Se i vigili di Roma mi catturano la macchina, posso riprendermela in venti minuti con un taxi e una ragionevole multa.
Il mondo francese non è molto diverso e me ne accorgo dal rapporto che hanno i miei tre figli con la scuola pubblica francese di Roma: dietro quella fabbrica delle regole civili e dell’apprendimento, si sente la presenza dello Stato centralista parigino che agisce come un principe illuminato e inflessibile, chiunque sieda all’Eliseo. Ma sui giornali francesi si discute sul motivo per cui quest’anno l’insegnamento dell’algebra è stato insoddisfacente o se non dobbiamo rinforzare il programma di biologia dopo le ultime scoperte di genetica.
L’italiano medio, a differenza del francese medio o dell’inglese medio, tuttavia non esiste. Troppe identità, troppe storie, sicché modificare l’italiano non ha senso. Ma modificare il suo modo, quale che sia la sua regione, sì. Ha senso, ma bisogna sudare lacrime e sangue. La politica, di destra o di sinistra, non ci ha mai nemmeno provato perché le rivoluzioni di mentalità le potevano fare soltanto tiranni illuminati e visionari, come Calvino a Ginevra e Maria Teresa a Vienna. L’Italia non ha avuto né l’uno né l’altro, anche se Veneto e Lombardia si sono avvantaggiati delle riforme teresiane austriache. Mario Monti potrebbe, o vorrebbe, davvero essere Calvino e Maria Teresa? Forse in un angolo accademico della sua mente coltiva anche un tale legittimo e impossibile sogno. Merito e concorrenza implicano la fine del familismo sia mammista che mafioso, il bando delle raccomandazioni, e molta «noia» del posto fisso. Ma per farcela occorre qualcosa di più di un auspicio: occorre la rivoluzione liberale e culturale che l’Italia non ha mai avuto, fra deragliamenti ideologici e rilassamenti etici. Occorrerebbe creare nuovi parametri per le nuove generazioni, ma per un tale obiettivo occorrerebbe un uso diverso della televisione, una crescita del giornalismo indipendente e una riforma radicale della scuola, dalla materna all’università.
Per cambiare la testa degli italiani occorrono comunque un po’ più dei quattordici mesi che ci separano dalle elezioni e dalla fine annunciata del governo Monti. E allora bisognerebbe chiedere ai partiti, se vedono come loro priorità la riforma dei comportamenti che fanno dell’italiano il figlio di un dio minore fra i popoli occidentali. Non ci sembra di vedere nulla di simile all’orizzonte.
E allora sono prevedibili due ipotesi. La prima: dopo aver avviato le riforme e auspicato il cambio di mentalità, Monti si ritira restituendo le chiavi alla politica, che però non ha alcuna voglia di modificare il comportamenti degli italiani, visto che deve chieder loro i voti.
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