Con il mesto canto dei rabbini parte l’esodo dei coloni di Gaza

Cominciato nella notte il ritiro. In un cimitero l’addio alla terra non più promessa. Ai soldati il compito di espellere chi non vuole andarsene

Con il mesto canto dei rabbini parte l’esodo dei coloni di Gaza

Gian Micalessin

da Neve Dekalim

Avi sorride, guarda l'orologio. «Tra un po' siamo tutti e due illegali». Mi abbraccia felice. «Complici», sghignazza, dandomi la mano e battendomi sulla spalla. Avi Ankri è un omone in kippah e canottiera. Ha 47 anni, è arrivato qui a Neve Dekalim che ne aveva 35. Ha fatto fortuna costruendo case e villette. Ora disfa la sua. Sono due piani di mura bianche e tegole rosse con dentro la moglie Miriam, i due figli Modi e Udi di 21 e 18 anni e Ila e Rein, le due piccoline di 12 e tre anni. Non hanno fretta Avi e Miriam e non sono neppure troppo disperati. Avi del resto è un incorreggibile fatalista. «Dio ci ha portato qui e ci ha fatto far fortuna. Ora ci fa partire. Magari dall'altra parte andrà anche meglio». Avi e Miriam sono religiosi, ma non fanatici. Per loro questo non è l'addio alla terra del Signore. È un semplice trasloco. E poi la casa nuova già c'è. Avi l'ha costruita appena fuori l'insediamento tra i kibbutz del Negev. «Domani mattina quando arriveranno i soldati gli spiegherò che aspettiamo il miracolo, ma se non arriva martedì montiamo in macchina e filiamo».
Il miracolo, il frutto delle milioni di preghiere innalzatesi dalle 26 sinagoghe delle colonie di Gush Katif e dal Muro del Pianto di Gerusalemme in questa notte di Tisha Be'av, non si può non aspettare. «A un miracolo non si rinuncia», ribatte Miriam. Avi sorride, fa finta di crederci. Del resto buttare mobili e bagagli su un furgone e mollare tutti non si può. Solidarietà e rispetto per chi non molla impongono d'aspettare. La mezzanotte di martedì è il limite massimo dell'illegalità consentita. Fino ad allora anche da illegali sarà possibile portar via auto e averi senza rinunciare a uno solo degli almeno 200mila dollari di contributi governativi.
Anche casa Ankri ha la sua attivista anti-ritiro. Mentre Miriam e Avi fanno scomparire dispense, poltrone e librerie in enormi scatoloni, Ila conquista gli spazi di muro liberati, sceglie un colore di bomboletta spray e ci spara sopra il suo benvenuto ai militari. «Qui vive ancora una famiglia di ebrei, solo Sharon è passato con gli arabi», recita la scritta in rosso davanti all'entrata. «Il primo militare che entra capirà come stanno le cose», sostiene Ila. I colori cambiano ad ogni angolo e ogni stanza. «Gush Katif è la nostra famiglia», dice quella in rosa. «Un ebreo non può espellere altri ebrei», ammoniscono le lettere viola. Fuori da questa casa non tutto è così semplice.
Gli altri piangono un po' ovunque. Alla sinagoga dove le ataviche pene per i tempi distrutti si mescolano a quelle dell'imminente addio. Alle casse del supermarket sopraffatti dall'emozione dell'ultima spesa e dalla desolazione degli scaffali vuoti. Ma piangono soprattutto nel piccolo cimitero davanti a quelle 48 tombe che nessuno vorrebbe lasciare. Il primo e il secondo tempio rasi al suolo dai babilonesi nel 586 a.C. e dalle legioni di Roma nel 70 d.C. caddero nello stesso giorno, entrambi di Tisha Be'av. Difficile non pensare alle coincidenze, impossibile non fantasticare sul destino. Soprattutto qui nel cimitero tra pianti cocenti e salmi antichi per una tragedia imminente.
Nel cimitero il lungo corno arricciato lancia un gemito stridulo. È il giorno più torrido dell'estate, 36 gradi, umido ribollente, sole a picco. Il rabbino ci soffia dentro tutta la rabbia dei suoi polmoni. Duecento kippah, duecento donne velate e un unico inchino ancestrale. Il gemito di 400 cuori in una nenia antica. Sale lenta diventa canto sofferto. I rabbini cantano a squarciagola. Giovani e anziani, uomini e donne li seguono, alzando le braccia al cielo, abbassando il capo sul Talmud. Si abbandonano sogni, speranze, ideali. Qui e là singulti coprono le quattrocento voci. Geme affranto un ragazzino, s'abbracciano due amiche sconsolate. Mani e polsi, angoli di camicia e fazzoletti inzuppati asciugano occhi e volti straziati. Rachele abbraccia la tomba, urla. I fotografi le rubano attimi di disperazione. Un ululato di rabbia li investe. Qualcuno riesce ad esser cortese. «Un minuto di pietà», implora Ben David Elì dal tumulo accanto. Sono in cinque. Lui, la moglie, i figli di Roven Ben David il fratello morto dieci anni fa. «Era un ricercatore, i suoi studi contribuirono alla lotta all'Aids, ma il virus lo uccise. Oggi lui non capirebbe, né io saprei spiegargli perchè un governo ebraico cacci di casa i propri figli di Tisha Be’av».
Qualcuno si prepara alla resistenza. I cinquemila intrusi, tra cui molti ragazzini, molti religiosi e tanti estremisti infiltratisi nelle colonie, sono scomparsi. Fino a ieri quando Rafi Sari capo del comitato di resistenza di Gush Katif ha impartito le ultime direttive erano accampati tra prati e viottoli. Ora sembrano dissolti. Risorgeranno domani mattina quando le associazioni dei coloni daranno il via ad «Alba arancione», il piano per bloccare l'esercito alle porte degli insediamenti. Ma ora anche l'altro nemico, quello di sempre è pronto a colpire. Un missile palestinese è caduto a Qissufim, la porta di tutte le colonie del sud. Nel buio della sera le strade sono affollate di blindati e soldati. Devono entrare negli insediamenti. Devono trattare come fratelli i coloni. Devono difenderli dai palestinesi. Devono convincerli ad andarsene. Devono buttarli fuori.

Devono respingere senza violenza la protesta dietro a loro. A mezzanotte la sbarra di Neve Dekalim è calata. Ha diviso noi e loro. Là fuori è un mondo difficile. Tanto difficile. Qui dentro l'unica certezza e quella di altre 48, ultime, disperate ore.

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