«Mettiamo il cappello in testa a cinesi e giapponesi»

Maurilio Vecchi guida l'azienda di famiglia: "Da noi non è di moda, ma Francia e Germania lo amano"

«Mettiamo il cappello in testa a cinesi e giapponesi»

Mettersi in testa qualcosa. E poi, abilmente, riuscire a metterlo in testa a mezzo mondo. Vecchi propositi che il Cappellificio Vecchi, concedeteci questa piroetta di parole, è riuscito per quattro generazioni a realizzare con successo, facendo di un piccolo paese marchigiano, Montappone, l'epicentro del copricapo. E' la storia antica di artigiani specializzati nella lavorazione della treccia, raccontata al Giornale da Maurilio Vecchi, 59 anni che, con la mamma Alessandrina Ciccioli di 80 anni, depositaria della eredità morale e manuale degli antenati, trasmette la sua esperienza alle nuove generazioni. Al loro fianco la moglie di Maurilio, Fiorangela, particolarmente attenta alle salite e alle discese della moda e del mercato.

Un piccolo team che, con nove operai, rinnova ogni giorno il messaggio di stile del nostro made in Italy. Una storia lunga un secolo e tutta intrecciata, dapprima con la paglia e poi, anno dopo anno, con tutte le altre fibre che hanno dato corpo e lustro alle loro creazioni. «Tutto cominciò - spiega Maurilio Vecchi - con il bisnonno Luigi che, agli inizi del Novecento, già si ingegnava nella realizzazione di cappelli per la campagna, il classico cappello di paglia per intenderci, lavorando il truciolo. Faceva tutto da solo: produceva e vendeva, finché, con lo scoppio della prima guerra mondiale, dovette riparare in Istria. Conclusa la guerra rieccolo da queste parti, a Fermo, deciso a ripartire e ad andare avanti con la produzione dei cappelli di campagna semplici e pratici con l'aiuto di alcuni artigiani della zona. Una produzione ristretta a pochi modelli che proseguì, con queste modeste dimensioni, fino agli Anni Cinquanta». Scorrendo l'album delle fotografie dell'azienda, quando c'è stata la svolta? «Dai primi Anni Sessanta il nostro cappellificio, come, in buona sostanza tutti gli altri cappellifici di questa zona delle Marche, impressero una forte accelerazione produttiva. Si cominciarono a variare i modelli e, soprattutto, si cominciarono ad impiegare materiali di importazione come i tessuti e il feltro mantenendo sempre e comunque in essere la nostra peculiarità, la lavorazione della treccia».

Il cappello, quindi, come cartina di tornasole anche dei mutamenti e delle molte e variegate pretese della moda? «Assolutamente sì se consideriamo che per noi ci fu, per esempio, un picco di richieste fino agli Anni Settanta dei cappelli da bambina, sia da cerimonia sia da passeggio, che poi, all'improvviso, per il cambiamento delle abitudini famigliari andò rapidamente scemando negli anni successivi per lasciare spazio a proposte più ricercate ed attuali fino alla vera svolta aziendale che abbiamo deciso di intraprendere alle soglie dell'anno Duemila con il lancio di Hats and Dreams».

Che cos'è? «Diciamo - sottolinea con soddisfazione Maurilio Vecchi - che è il nostro top brand che porta in orbita sogni di eleganza e di distinzione. Tanto che nell'ottica di questo nuovo proposito stiamo intensificando la collezione delle nuove creazioni, anche con molte novità dedicate all'eleganza femminile per far distinguere e distinguere la donna d'oggi in ogni occasione: dal tempo libero, agli eventi di lavoro ai cocktail mondani. Ci conforta il fatto che le nostre creazioni stanno suscitando un grande successo all'estero, tanto che l'export è decisamente lievitato: in effetti oggi il 90 per cento dei cappelli che escono dal nostro laboratorio di Montappone è destinato a Corea, Giappone e, più recentemente, anche alla Cina, desiderosa di prodotti di vera qualità italiana. Perché noi italiani, diciamo la verità, anche se tentano di imitarci, riusciamo sempre a stare due passi avanti a chiunque in fatto di stile ed eleganza». Ma quali cappelli vi chiedono in Oriente? «La donna orientale vuole per l'estate cappelli a falda larga per riparare buona parte del volto dal sole. L'uomo chiede invece un cappello prezioso, arricchito da dettagli ricercati e, per averlo, non bada a spese. E' disposto infatti anche a spendere cinquecento-mille euro ma pretende, giustamente, esclusive. Quanto ai materiali, per il cappello estivo lavoriamo la treccia di carta tessile mentre per l'inverno si utilizzano ovviamente feltro e lana».

E in Occidente? Perché il cappello non svetta più sulle teste degli europei? «Nel mercato occidentale, purtroppo, si è persa l'abitudine al cappello, ma, fortunatamente Francia e Germania sanno ancora apprezzarlo e in questi due Paesi abbiamo ancora un buon numero di richieste. Verrebbe da pensare anche alla Gran Bretagna, ma lì c'è un mercato molto particolare, che gira attorno agli eventi sportivi e mondani e che già può contare su aziende locali altamente specializzate».

Quanti cappelli escono mediamente dal suo atelier ogni giorno? «Dipende molto dall'articolo che facciamo, ci sono cappelli che dobbiamo lavorare con treccia da tre millimetri ad altri con treccia fino a dieci millimetri. Diciamo che, in media, siamo in grado di produrre 100-150 cappelli al giorno». Su, ci convinca a metterci, da domani, un cappello in testa.

«Il cappello aggiunge eleganza, porta raffinatezza e dà un tocco in più di personalità. E poi tutti possono portare cappelli, alti, bassi, magri e grassi perché ciascuno ha il suo modello di cappello». Chiaro, chiarissimo. Tanto di cappello mister Vecchi.

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