Mezzo secolo di migranti, tra valigie e sogni

Mani che stringono il peso di valige mai grandi abbastanza. Sono quelle dei migranti, che si fanno strada tra sguardi sospettosi ieri, negli anni Cinquanta, come mezzo secolo più tardi. A condurci su questo identico scenario umano - non fosse per abiti e colori - sono due delle opere di Fioralba Nicosia Lippolis che sono rimaste esposte fino a ieri al Castello di Nervi. Qui, nell'antica torre sulla passeggiata Anita Garibaldi prosegue, infatti, il programma degli eventi espositivi ha appena segnato il successo della mostra «Società postindustriale e mediatica tra solitudine e speranza» organizzata in collaborazione con le associazioni Mater Matuta e Amici dell'Acquario di Genova. Lei, Fioralba Nicosia Lippolis, cresce nella periferia torinese degli anni Sessanta maturando il proprio sguardo sul mondo. Un orizzonte dove non può evitare di scorgere miseria, occasioni mancate, false promesse e miti che si sgretolano alla luce di un progresso che alla resa dei conti non è tale, o almeno non per tutti, benché edulcorato da un'onnipresente televisione. Una visione sociale e religiosa - ogni sua mostra è dedicata alla Medaglia Miracolosa - sottende e guida le opere, che nel complesso paiono brani di un unico movimento. Quello di una società rea di indifferenza e cecità nel riconoscere i mostri, ovvero gli errori, che va nutrendo. Tagli prospettici bulimici, che evocano la peggiore speculazione edilizia, esplodono allora in un caleidoscopio di incubi postmoderni. Per raccontare ipocrisie e ingiustizie il linguaggio si fa visionario tra vortici, maschere e deformazioni e, ancora, grottesco e uso del colore saturo, riallacciandosi all'Espressionismo ma ancor più alla Nuova Oggettività. Ed ecco una torre di corpi a sorreggere «La grigliata dei potenti» che sfoggiano cappello e giacca nonostante membra decadenti e volti disumani. Nelle case intanto è già «Troppo tardi» e la tv riduce a un groviglio di corpi e ragnatele una, tra le tante, famiglie. Schermi paiono pure le finestre dei casermoni tutti uguali di periferia, ridotti quasi a un meccano nelle mani della malavita organizzata plasmata in guisa di automa gigante.

La religione ma soprattutto la sua amministrazione non manca all'appello di questo viaggio in una società dove la solitudine è sì tra le rughe dell'operaia abbandonata ma ancor più tra la folla, scomposta o inscatolata ma comunque esasperata. Sguardo e consapevolezza, allora, come germi della speranza e della volontà di riscatto.

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