"La sfida non l'Himalaya ma scalare la solitudine"

Ha vinto le montagne più alte del mondo e superato i limiti della resistenza umana: "Serve un'etica nuova, l'alpinismo tradizionale sta scomparendo. Che assurde 250 persone al campo base del K2"

"La sfida non l'Himalaya ma scalare la solitudine"

Ha scalato, per primo e in sedici anni, tutti i 14 ottomila della terra, ma il caffè no. Confessa che a casa ancora glielo preparano. Deserto del Gobi, Groenlandia e Antartide a piedi, primo della classe senza ossigeno sull'Everest fin dal 1978, però poi la caduta più fragorosa se l'è procurata scavalcando il muro di casa, una sera che aveva scordato le chiavi. Lui è Reinhold da Funes. Per tutti Messner, il mito, l'uomo d'avventura che non ha mai smesso di ripetere: «Più sali di quota, più scendi dentro il tuo animo e sulla vetta l'unico pensiero è tornare indietro». Potenza della sintesi, dello stile alpino e di un gran paio di polmoni, Messner, classe 1944, ha deciso di regalarsi il suo quindicesimo ottomila proprio nel 2015, con una doppia impresa. Un museo Mmm, Messner mountain museum e un libro dedicato ai 150 anni della Gran Becca, s'intitola «Cervino, il più nobile scoglio», come fu soprannominato fin dal'800.

Più che una conquista, sul Cervino, si giocò a risiko fin dal 1865.

«Anche da prima. Da una parte un illustratore, giovane e determinato, Edward Whymper, vi salì per primo dalla Svizzera, ma perdette quattro dei suoi sei compagni in discesa: una delle più grandi tragedie della montagna. Dall'altra il valdostano Jean Antoine Carrel, forte ed esperto, arrivò tre giorni dopo in cima per l'italianissima Cresta del Leone. Fu un vero derby fra due mondi contrapposti: l'Italia del ministro Quintino Sella contro il Club alpino londinese. Una partita sulla pelle di due uomini».

Carrel e Whymper, Bonatti e il K2, e anche la vicenda che coinvolse lei e suo fratello, morto sul Nanga Parbat nel 1970: perché tante imprese in montagna si trascinano in pianura fra processi e revisioni?

«Sono casi simili alimentati dalla stampa e da una sorta di ragion di stato. Sul K2 nel 1954 fu una lite fra il capospedizione Ardito Desio e Achille Compagnoni (in vetta con Lacedelli ndr ) a proposito del congelamento del portatore Mahdi, a innescare il bisogno di fare di Bonatti un capro espiatorio, e non un eroe, con le accuse sull'ossigeno e quanto ne derivò. E successe anche a me quando, morto mio fratello sulla via del ritorno, dopo sei giorni di cammino, mi ripresentai, più morto che vivo, al capospedizione che aveva smesso di cercarmi. Sostenne che avevo abbandonato Guenther sotto la cima, pur di arrivare sul Nanga Parbat. Mi ci sono voluti 35 anni per riaffermare la mia, l'unica, verità».

Con la presa del Cervino lei fa chiudere la stagione delle conquiste e fa nascere l'alpinismo: ma le sue - come quelle di Bonatti o Cassin ieri e Barmasse e altri oggi - non furono quindi conquiste?

«Sì, ma con il Cervino si chiude la conquista delle cime e si apre la caccia a nuove vie su cime già scalate. Ecco l'epoca grande di Cassin e in particolare di Bonatti che supera il limite dell'impossibile. Oggi Hervé Barmasse (fra i più forti alpinisti odierni, guida di Cervinia ndr ) propone un'etica nuova e coraggiosa: non sempre serve andare sull'Himalaya. Non contano quota o velocità, ma l'ambiente severo e, spesso, la solitudine».

In un altro libro racconta di Bonatti come di un fratello: perché fra due big come voi è servito tanto tempo per ritrovarsi?

«Ci hanno tenuti divisi perché è più facile gestire due individui separati, seminando incertezza e incomprensioni. Divide et impera . Lo dicevano già i romani, no?».

Oggi, fra trail e skyrunning, in montagna si sale correndo, a caccia di un record. Come andrebbero gestite queste mode così lontane dall'alpinismo?

«Sono, appunto, delle mode passeggere. Rispetto la libertà di tutti, ma constato che l'alpinismo tradizionale sta sparendo. Il 90% dei praticanti arrampica indoor o su terreni sportivi e non in ambiente. E anche questa estate ci saranno state 250 persone al campo base del K2. Se il turismo raggiunge la cima dell'Himalaya, da dove deve partire l'alpinismo tradizionale?».

Anche l'Everest è ormai un monte da red carpet e da festival del cinema mentre il monte Bianco è lo sfondo di un reality che vedremo in autunno…

«Tutto è segno dei tempi, basta non confondere le dimensioni fra reality e realtà. Non ho visto il film tratto dal libro di John Krakauer sui tragici eventi del 1996: mi basta sapere che è stato ambientato su una pista da sci per capire che non potrà mai raccontare davvero l'alta quota».

Meglio buttarsi su altre imprese come i suoi musei: per l'ultimo si è legato in cordata con l'archistar Zaha Hadid. Com'è andata?

«È stata un'impresa al limite delle possibilità. Per giorni ho temuto di fallire, come aveva profetizzato il quotidiano bavarese Suddeutsche Zeitung che volevo invece smentire! Che fatica tutte quelle pareti tonde e bellissime dove sembrava impossibile poter disporre i 360 pezzi previsti. Il museo si sviluppa nelle viscere della roccia mentre dalle vetrate si vedono le Dolomiti. È la mia idea di eredità affinché le generazioni future possano capire cos'era l'alpinismo per noia».

Dopo questo ultimo museo non se ne starà con le mani in mano?

«Vorrei ancora raccontare la montagna. Dopo le scalate, i libri, le conferenze e i musei, vorrei farlo con il linguaggio del cinema. A breve sarò sui monti del Kenya come direttore di una produzione austriaca che ripercorre una serie di tragici eventi accaduti negli anni Cinquanta».

Perché ha scritto che vorrebbe essere ricordato per i suoi fallimenti?

«Ho imparato molto di più dalle mie sconfitte e ora che sono più anziano è anche più facile raccontarle».

Eppure tutti vorrebbero vivere almeno una giornata da Messner: lei chi vorrebbe essere per un giorno? Marco Polo, Omero, Cristoforo Colombo?

«Che nomi! Marco Polo? Troppo duro. Penso semmai ai primi esploratori del polo Sud però vede, ho già una fortuna».

Fra le molte, quale?

«Che riesco a immedesimarmi. Sia quando ho attraversato io stesso il polo Sud, anni fa, sia mentre scrivevo il libro sul Cervino, mi sembrava di rivivere le fatiche di questi grandi. Scrivo di notte, c'è più pace, e confesso che fra le righe ho pianto quando si è trattato di raccontare di Carrel».

Lei ha scritto che camminando vengono i pensieri migliori: è forse questo l'augurio che si può fare a chi non hai mai provato ad andare in montagna?

«Sicuramente. Infatti io ho sempre camminato. Mai di corsa!».

Se lei fosse ora nel pieno della sua attività alpinistica, userebbe la tecnologia che oggi le spedizioni hanno a disposizione?

«Il mio motto è sempre niente ossigeno artificiale, niente chiodi fissi, niente comunicazioni, niente droghe. Quando Cassin era appeso alla Ovest di Lavaredo era solo, a un bivio con la morte. Non poteva fare una telefonata: anche questo rende più grande e irripetibile la sua impresa. Detto questo, oggi, almeno il cellulare lo porterei e sono contento quando mio figlio parte e se lo mette in tasca».

Già, suo figlio Simon arrampica meglio di lei: questione di gioventù?

«No no, è più forte in assoluto. E quando è via capisco tante cose, ma non posso bloccarlo. Lui mi guarda e mi dice: “Da che pulpito, papà?”».

Con sua figlia invece ha cominciato a lavorare: chi è il capospedizione?

«Magdalena gestisce l'ultimo dei Messner mountain museum a Plan de Corones. Ha studiato economia e arte ed è molto più paziente di me che, al contrario, per la tensione dell'inaugurazione, sparivo nei boschi a camminare. Lei riflette e trova sempre la soluzione».

Si ritiene deluso dalla politica?

«Non totalmente: se mi chiedono do ancora il mio parere anche se resto un uomo pratico. Oggi tocca ai giovani. Credo che l'Europa debba essere più unita. Il caso della Grecia è emblematico: come in cordata è giusto andare al passo del più debole, prima di partire però tutti devono allenarsi adeguatamente e impegnarsi per un obiettivo comune».

Ch e cosa si augura per il Nepal dopo il terremoto?

«Che torni presto il turismo. Non hanno solo bisogno di riempire le stanze dei loro lodge ma anche le loro anime con la speranza che il mondo non li abbandoni e continui a voler scoprire la bellezza di quei luoghi».

Cercherà ancora lo yeti, nonostante le minacce dei talebani e i giornalisti dalla lingua lunga che hanno rivelato con troppo anticipo i motivi della spedizione?

«Credo nel valore scientifico di quella ricerca e anche nella consegna del silenzio!».

Nostalgia di un ottomila?

«Andrò ancora presto in Pakistan, ma prometto che a 71 anni mi accontenterò di una seimila metri».

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