La mia musa? Un mare di volti

«È come mangiare marmellata a cucchiaiate, impossibile, nauseante» scriveva Witold Gombrowicz, con spirito dissacratorio, riferendosi alla poesia. Troppo concentrata, troppo zuccherosa. Lui preferiva i romanzi, dove la marmellata lirica viene spalmata su ampie fette di pane croccante, pardon, di trama. Però, a guardar bene, a metà tra poesia ipercondensata e romanzo-fiume stile Russia Ottocento, ci sarebbe il genere del poema: pagine di ampio respiro, dove ci si riposa rigenerandosi. Poemi come Le dionisiache di Nonno di Panopoli (l’Omero bizantino, immaginifico e sensuale), nei cui 48 canti il lettore trascorrerà feconde tranquille giornate, oppure La leggenda dei secoli di Victor Hugo, oppure ancora, nell’oggi, su frequenze meno grandiose e più dimesse, Viaggio nella presenza del tempo, a cui Giancarlo Majorino ha lavorato per decenni, quasi tutti interamente trascorsi a Milano, la città dov’è nato nel 1928 e dove si è consolidata la sua fama di poeta tra i maggiori della sua generazione.
«Mi sono sempre trovato profondamente a mio agio qui - ci racconta Majorino - contro tutti quelli che definiscono questa città invivibile. A Milano certi fattori fondamentali della realtà, il rapporto con le persone, il lavoro, la cultura, sono molto nitidi, a differenza di altri luoghi, magari più estetizzanti, ma meno coinvolgenti». Accade perché la sua poesia vive innanzitutto di relazioni umane: «Quando gli amici - continua Majorino - mi chiedono: “Ma perché non vieni a trovarci al mare?”, declino rispondendo “A me piace di più il mare delle facce in città”. In spiaggia come in montagna sbadiglio dal mattino alla sera. Qui a Milano, invece, divento una specie di vampiro buono. Spesso prendo la metropolitana o il tram per calarmi nel teatro dei volti. In un certo senso, i libri che ho scritto sono attestati di mutazioni di sguardi su Milano e sulle facce dei milanesi. Non mi manca il contatto con la natura: sono talmente impastato con le persone che loro hanno sostituito la natura. Ma, in fondo, non è natura il corpo? Siamo tutti corpi di corpi. Incameriamo e restituiamo affetti, siamo come “pezzati”, macchiati dal nostro essere e da quello degli altri. Se questo porta anche inquietudine, ben venga, sono un nemico della quiete».
Ritroviamo questo modo di essere proprio in Viaggio nella presenza del tempo (Mondadori), dove citazioni da altri autori precipitano all’improvviso, spiazzanti ma logiche, nel tessuto della narrazione: «Paesaggio serale dalla mia finestra di via Melloni ricco e vario,/ Hegel: “da tale buia unità, nel caldo confortevole delle case,/ nell’armonia delle colazioni e dei rientri e delle uscite concerto/ si andranno traendo altre determinatezze”/... mirando la metropoli che s’oscura attraverso la/ finestra vetrosa una ragazza nuda sdraiata/ nella mente... giocavamo sapendo e non/ sapendo la grande partita/ lacrime di gola/ quattr’occhi stelle filanti ridenti...». È bello ritrovare la propria vita (cittadina ma anche intima) intuita e descritta - sebbene con parole non facili («il lettore deve allenarsi all’intensità» ci dice Majorino) - in modo così preciso e sottilmente commovente da un poeta: gli si perdona così quella sua «bontà vampiresca» proprio in virtù del ritorno di bellezza che questa ci dà, come lettori, ma anche come umani: che sia questa l’umile salvezza che si dice che la poesia doni?
Intanto, però, bisogna lavorare: «Sono passato attraverso mille lavori - prosegue Majorino -: rappresentante, maestro di tennis, bookmaker, impiegato in un ufficio legale, sempre sapendo che non erano occupazioni conclusive. Poi ho insegnato filosofia e storia per 15 anni in un liceo, poi la Naba - la Nuova Accademia di Belle Arti, che Guido Ballo insieme ad altri pittori fondò per far concorrenza a Brera - mi ha offerto questa cattedra di estetica. I “miei” luoghi milanesi sono soprattutto quelli che nel tempo ho incontrato lavorando: piazza Cordusio, piazza Duomo. Poi c’è la Pinacoteca, l’Osservatorio, Brera, che ho sempre percorso come all’interno di una grande avventura possibile, quella dell’arte. Tutti posti a volte chiassosi, dove ho sempre trovato, però, angoli segreti. Mi è accaduto pure con certi spazi di periferia: coi miei abitavo in fondo a via Archimede, dove la città sfumava nella campagna. Ed è sempre a Milano che mi sono sposato con l’Enrica, con cui sto da una tonnellata di anni, ormai».
E così arriviamo ai sentimenti, tema cruciale in una grande città, dove i sentimenti non è che non nascano, ma nascono entrando subito in osmosi con alcuni caratteri del luogo, come la velocità o il movimento continuo. «Posso citarle un verso, a proposito? - ci dice Majorino. “La superficie non è l’opposto della profondità ma la sua vice”. Per me le due cose non si contrappongono, nemmeno nei sentimenti, nemmeno nella metropoli. Ho sempre cercato di tenere insieme solitudine - tutte le mattine mi alzo alle cinque, rimanendo “solo” nel mondo - e comunanza con gli esseri umani. Le cito un altro verso mio: “Amore grande e amore piccolo a infuriato colloquio”. Ecco, ho sempre pensato che oltre all’amore a due, di coppia, immenso se si vuole, ci voglia anche un altro amore che vada di pari passo: per la città, per la rivoluzione, per la letteratura. L’amore a due vive quando comprende questa apertura. E così vive l’altro amore, allo stesso modo.

Chi si ferma solo a uno di questi due finisce - ecco un’altra autocitazione - “a girare come un cieco”. Per dirla con Proust: “Siamo abituati purtroppo a non usare le facoltà più preziose che abbiamo: fantasia, intelligenza, sentimento; e allora interviene l’abitudine che sa quello che vuole e si impadronisce di tutto”».

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