La mia Napoli influenzata dalla iella

Sono nato a pochi metri da un ospedale che porta un nome poco rassicurante: «Incurabili». Da sposato mi sono trasferito sulla collina del Vomero, nella cosiddetta «zona ospedaliera». Ad ogni minuto la sirena dell’ambulanza lacera l’aria di casa mia (e i miei timpani, perché il traffico impedisce all’automezzo di correre, e l’apparecchio acustico non smette di suonare) diretta verso uno dei quattro ospedali che sorgono a pochi metri l’uno dall'altro: il Cotugno, il Monaldi, il Cardarelli, il II Policlinico (un quinto -il Santobono- è a poca distanza). Quando starò per crepare, avrò solo l’imbarazzo della scelta.
Pur essendo nato di fronte a un obitorio (e mio padre di fronte a un ossario, quello delle Fontanelle) non ritengo di essere uno iettatore, cioè non ritengo di essere io (anch’io) la causa delle sciagure di Napoli. Napoli, già molto prima della mia venuta al mondo ha dovuto fare i conti con le calamità. Dal V secolo a. C. al 1984 conto 41 eruzioni del Vesuvio, 20 terremoti, 18 epidemie, 6 carestie, oltre a nubifragi, formazione di nuove terre, bradisismi eccetera.
Dal tempo della nostra fondazione ci consideriamo una città iellata, ed è per questo che abbiamo elevato a sette il numero dei patroni (Gennaro, Agrippino, Agnello, Aspreno, Eusebio, Severo, Attanasio) più altri quarantaquattro ausiliari (quattro occhi vedono meglio di due, e otto meglio di quattro) assicurandoci il più numeroso collegio di avvocati esercitanti il gratuito patrocinio in cielo. Ai santi aggiungiamo le anime del Purgatorio, il cui culto è il più sentito in Italia. Se anime beate e anime mezzo-beate non riescono nell’impresa, c’è sempre una lunghissima, interminabile teoria di scongiuri cui affidarsi, prima fra tutte le corna.
Ora il dibattito in città è il seguente: a chi addossare la colpa dei decessi per influenza, il cui numero (otto) è il più alto in Italia? Ai tempi della serie B del Napoli, il colpevole sarebbe stato di certo identificato in Ferlaino (lo ritenevano responsabile di ogni guaio, pover’uomo) ma Ferlaino da tempo è fuori gioco. E allora? Le possibilità si restringono a due: o al Cotugno i medici non sanno fare il proprio mestiere, oppure il problema è metafisico. Premetto che il Cotugno è uno dei pochi nosocomi partenopei a godere di buona reputazione; se la cosa fosse capitata al Cardarelli, sarebbe stato diverso. Non che questo ospedale non annoveri valenti professori, ma nel tempo s’è fatta una cattiva nomea.
E allora? Allora è la malasciorta (cattiva fortuna), ancora una volta la malasciorta, la vera responsabile di tanti lutti. E contro di essa, due, ripeto, sono le contromisure: il rosario (per chi crede) e le corna.
A furia di iatture, soccomberà, Napoli? No, Napoli non soccomberà. Napoli è come il capitone.

Sbattuta contro i suoi sogni dalle disgrazie (come il capitone è sbattuto sul bancone del pescivendolo), fatta a pezzi dalle avversità (come il capitone è fatto a pezzi sul tavolo della cucina) in ogni sua parte si agita (come il capitone sobbalza nella padella) e quando ormai la dai per spacciata («è mangiato, sto per dire, è ancora freme; non muore, è inutile, non vuol saperne di morire», scrive del capitone Peppino Marotta) si rialza dal letto di morte, come don Gennaro, il finto morto di Napoli milionaria, e come don Gennaro scosta i fiori dalla coperta, e augura a tutti: «Buona giornata».

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