Michelin, la grandeur è servita

Paolo Marchi

Domani a Parma, un’azienda che più italiana non si può, la Barilla, festeggerà la guida che più francese non si può, la Michelin, che in Francia esce dal 1900 e da noi dal 1956. Mezzo secolo di Bibendum e di stelle, e tanti italiani che ancora non si sono fatti una ragione dello strapotere della Rossa. Possiamo criticarne le scelte fino alla noia, anzi è quasi un dovere perché non esistono verità assolute, a patto sia ben chiaro che non esiste pubblicazione in Europa in grado di esercitare un potere pari.
La Michelin è espressione della grandeur francese in cucina e cantina, evoca un mondo di seduzione, ricchezza e piacere che tutti, in tutti i continenti, conoscono e quasi sempre ammirano. Quando vuoi fare bella figura guardi a Parigi, certo non a un fast food. E poi è chiara e facile da capire perché c’è ben poco da leggere. In pratica il numero di stelle e i prezzi, solo da poco anche un testo che, per stringatezza, ricorda quello della sua maggiore concorrente planetaria, la Zagat, che dall’America è sbarcata in Europa proprio come la Michelin ha fatto da poco il viaggio opposto.
Un giapponese la capisce, un tedesco anche, un inglese pure, chiunque insomma capisce che due stelle sono più di una e meno di tre, cosa che fa la fortuna della casa produttrice di pneumatici ma anche dei ristoratori che, soprattutto se illuminati da quel simboletto che i nostri cugini chiamano anche macaron perché ricorda la sezione di un maccherone, possono contare su una clientela internazionale, competente e pronta a spendere per cibi e vini che sovente gli italiani non possono permettersi perché cari.
Anche dove è stata inventata pochi possono permettersi un tre stelle, ma c’è una profonda differenza al di qua e al di là delle Alpi: là un ristoratore stellato è rispettato da tutti, specie in provincia, in paesotti che hanno ben pochi motivi per essere visitati per altri motivi. Da noi invece più un cuoco viene premiato e più sarà facilmente e gratuitamente criticato, quasi sempre per i prezzi. Se poi è uno che cerca di proporre una sua cucina, troverà sempre quello che rimpiange le tagliatelle della nonna e glielo rinfaccerà. La Michelin e la sua filosofia sono amate-odiate-invidiate e domani a Parma sfilerà il meglio dell’Italia a tavola, da locali tutto oro come l’Enoteca Pinchiorri di Firenze e la Pergola del Cavalieri Hilton a Roma, dove un terzo del conto è giustificato dall’ambiente e dal servizio, a baluardi della tradizione come Fini di Modena che ebbe la stella per la prima volta nel 1959 senza perderla mai. Nell’occasione verrà premiata Anna Maria Fini e con lei pure le sorelle Degoli, Anna e Franca, che dal padre Arnaldo hanno ereditato a Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, la Clinica Gastronomica, l’altro locale stellato superstite della guida del ’59, la prima in cui vennero assegnati i maccheroni. Tutti gli altri sono finiti nel dimenticatoio perché non siamo nella moda, nella quale una griffe sopravvive alla scomparsa dello stilista che l’ha creata. Quando uno chef muore la sua cucina finisce con lui.
Attorno alla rossa e ai suoi ispettori sono nate leggende, scritti libri e detto di tutto. Di sicuro gli 007 in servizio perenne non sono una ventina come sempre dichiarato ma la metà anche se tutti i manager della casa possono dire la loro ai responsabili del servizio turismo. Molta attenzione viene pure data a quello che viene segnalato dai lettori così come i vertici nostrani, attuale curatore è Fausto Arrighi, ultimo suo predecessore di spessore Roberto Restelli, hanno un raggio di azione che a livello decisionale non va oltre la singola stella. A livello di due e di tre interviene la casa madre, il cui controllo sulla realtà italiana è ferreo.
Noi poniamo un grosso problema ai francesi: non siamo una terra di conquista per i loro cuochi come Germania e Inghilterra, Asia e America. Noi abbiamo una nostra storia e una nostra grandezza che nasce dalla cucina casalinga. Possiamo (e dobbiamo) invidiare ai cugini le tecniche e l’organizzazione del lavoro, ma ci teniamo ben stretti i nostri sapori e i nostri saperi. Ci sono chef francesi anche lungo la penisola, Annie Feolde alla Pinchiorri piuttosto che Philippe Leveille al Miramonti l’Altro a Concesio in provincia di Brescia, ma non fanno cucina francese. E allora ecco che i vertici della rossa lungo lo stivale sono chiamati a giudicare non la cucina francese in trasferta (clamoroso l’esordio a New York), ma la nostra che è meno ricca di precisione, di tecniche e di rigore, con un continuo compromesso tra i livelli di servizio e di ricchezza d’insieme dell’esagono e quelli che trovano tra le Alpi e la Sicilia. E poi devono difendere l’industria alimentare francese, della quale i cuochi sono gli ambasciatori.
La Michelin ha sempre premiato la costanza, non tanto i singoli exploit. Meglio tre anni buoni che uno superlativo, uno mediocre e un terzo buono. Naturalmente premia chi ha grandi cantine, servizio importante e una tendenza all’uso di materie prime transalpine anche se questo schema è ormai messo in crisi dal successo creativo spagnolo e dalla nascita di nuovi grandi cuochi italiani, che sono sempre meno l’espressione della famiglia tutta unita sul lavoro. Cracco, Cedroni e Scabin non sono figli di ristoratori e non si sono mai ispirati alla Francia. Quando guardano all’estero prediligono la Spagna ma solo Cedroni vi ha fatto un tirocinio e, comunque, tutti e tre si documentano senza copiare a differenza della generazione dei Marchesi e dei Santin che in Francia trovarono le tecniche e le linee guida per cambiare l’alta cucina verde bianca e rossa.

Alajmo, un altro grande trentenne, ha ricevuto le chiavi del locale dai genitori che una dozzina di anni fa andarono ad aprire un altro posto. Ha una testa italianissima e maestri italiani. E i francesi si incavolano, come ai tempi di Coppi.

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