«All'Isola dicevano povero Ora ti chiedono: Affitti?»

Il comico racconta Milano partendo dal quartiere dove è nato e che oggi è il simbolo di una città cosmopolita

di Andrea Radic

Nato e cresciuto all'Isola («Una volta se dicevi vivo all'Isola, rispondevano mi spiace oggi mi chiedono se vendo»), considera Milano cosmopolita e rinascimentale. Enrico Bertolino ha il Dna milanese e un pezzo di cuore in Brasile, a Pititinga, un piccolo villaggio del Cearà dove ha fondato una Onlus.

Partiamo da Milano, come la vede?

«Una città cosmopolita che incarna il concetto della Firenze del Rinascimento. Aspettavamo da tempo questo momento, dopo aver vissuto periodi come la crisi energetica, quando si andava in giro con il calesse. Oggi è rinata, in Europa non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Milano è multiculturale anche nel cibo, in via Fara le trattorie hanno lasciato il posto a cinesi e kebab che vanno alla grande, tre turni a pranzo e cena».

Tutto così bello?

«Certo abbiamo problemi anche noi, ma la qualità della vita è seconda solo a Bolzano. Se non fossi nato qui, ci sarei venuto a vivere».

I suoi indirizzi gastronomici milanesi?

«Mangio troppo. D'altronde, dopo una certa età, i piaceri vengono riallineati. Col fumo ho smesso, non voleva mia figlia, per il resto... non volevano altri, resta il cibo. Mi hanno avvicinato alla cultura della cucina gli chef Davide Oldani (ho faticato ad accettare la sua cipolla caramellata, ma non me sono più separato) e Andrea Berton».

Altro?

«Mi piace la tradizione, come Al Garghet, dove il brasato con polenta ti fa stare bene con il mondo, sono piatti che mi hanno tenuto lontano dalle droghe. Poi la cucina etnica, mia figlia, 9 anni, studia cinese e quando la accompagno al corso in via Paolo Sarpi, mentre aspetto mangio ravioli Dim Sum. Buona anche la cucina regionale del Bon Wei. Per ritrovare la carne brasiliana c'è Barbacoa, il proprietario è del sud del Paese, sembra un tedesco».

Una passione per la cucina che è ricerca e curiosità.

«Certamente, anche riguardo alla cucina raffinata, sulla quale nutrivo qualche diffidenza. Sono stato amico di Gualtiero Marchesi e me ne onoro».

In cucina come se la cava?

«Ho i miei piatti del buon ricordo nel senso che non ricordo le dosi, ma vado di creatività. Se per la aglio e olio mi manca il pangrattato, io ci metto gli anacardi».

Dove trova ispirazione per la sua comicità che prende spunto dalla vita quotidiana?

«Giro nei mercati, vado al super a far la spesa e ci passo ore, con la voglia di capire e scambiare quattro parole con le persone. Anche a tavola si capisce molto della gente, cosa sceglie, quanto e come spende. Con i papà della classe di mia figlia, abbiamo una chat I bravi papà e, in attesa di trovarci in pigiama fuori dalle discoteche a riprendere i figli, andiamo a cena solo noi, senza mamme. Ecco, le persone le capisci lì. La tavola è la più alta forma di integrazione umana, le razze sono tutte uguali ma a tavola ti integri, ovunque tu sia».

E i vegani?

«Li rispetto, basta non facciano i redentori. In quel caso, li invito a farsi gli affari propri. Lei è vegano? Allora riprenda l'astronave e torni sul suo pianeta».

Il profumo dell'infanzia?

«Le lasagne che la mamma preparava con mia nonna e il vitello tonnato: un piatto assurdo, un tonno e un vitello che si incontrano, folclore puro. La domenica, invece, era il rito degli gnocchi. Li tagliavamo mentre arrivava l'odore del sugo. All'uscita dalla Messa, le paste, se c'era il grano, altrimenti si saltava. Il venerdì era pizza al trancio, da bambino pensavo fosse solo per cambiare, invece era per risparmiare».

Natale a casa Bertolino?

«Tutti i parenti, anche quelli che non vedevi mai: mio papà era il secondo di quattro fratelli, c'era poco spazio, ma tanto entusiasmo. Ho voluto mantenerlo e passo il Natale con mia mamma, non la lascio sola».

Dove abitavate?

«All'Isola, come oggi. Un quartiere che si è trasformato mantenendo viva l'atmosfera di un tempo con, una enclave familiare all'interno di una città europea».

Si cena ancora dopo lo spettacolo?

«Se trovi il ristorante aperto, è bello mangiare con la troupe, i musicisti, si sta bene e si risolvono i piccoli conflitti. Da noi anche la Brexit si sarebbe risolta a tavola. Poi capiti di trovare colleghi: a Bologna con Paolo Rossi, Alessandro Bergonzoni, Antonio Albanese, ci si confrontava sul numero degli spettatori, un po' come fanno i ristoratori».

Il pranzo che non dimenticherà mai?

«A Natale con i reduci di una comunità dell'Alto Piemonte di cui era membro mio padre, si andava a Messa in piazza Varesine e poi in una trattoria di via Fara, momenti di vita importanti. Oppure in Brasile, il Churrasco con mio cognato, dalle 9 di mattina alle 6 del pomeriggio».

Lei è stato anche assessore alla Cultura, a Ravello.

«La stupenda Ravello, mi coinvolse l'amico Mimmo De Masi. Un luogo magnifico, Villa Eva, Villa Rufolo, appena posso ci torno, la gente è stupenda e il cibo una liaison notevole».

Come è nata la sua Onlus a Pititinga?

«È stata Edna a trovare il posto. Appena arrivato, mi sono reso conto della grande povertà e quando mi hanno detto di difendermi mettendo telecamere ho deciso che avrei speso la stessa cifra per fare qualcosa di concreto, in 15 anni siamo riusciti a fare tanto, anche se oggi la situazione in Brasile è delicata, c'è molta violenza».

Le persone sono la sua ricchezza?

«Sì, anche per il mio lavoro di formatore comportamentale, le persone fanno la differenza, in ogni settore. È fondamentale ricordarsi sempre da dove sei partito. Quando io sono partito dal cabaret, ci pagavano dopo i camerieri Perché loro lavorano - dicevano - e voi vi divertite».

Il suo luogo del cuore?

«Il primo è in Brasile, nell'entroterra, abbiamo rilevato un terreno per evitare cacciassero il mezzadro, ci abbiamo scoperto 25 sorgenti naturali, un posto bellissimo, apriremo una Spa biologica e un ristorante».

Poi?

«Il secondo è il teatro, troppi chiudono. Va bene che con la cultura non si vive, ma senza si sta male».

La cena romantica è un'arma vincente?

«Io ero sempre un po' in imbarazzo perché mi innamoravo del cibo o perché mi si chiudeva lo stomaco. Se mangiano tutti e due e la fine si limona, allora va bene».

La sua Inter?

«Sono molto legato, lo era mio papà, mio nonno, la nostra famiglia non contempla altre squadre. La finale di Champions a Madrid, con le mogli dei calciatori è stata un'emozione impagabile».

Cosa chiede alla squadra?

«Di non farmi perdere l'appetito».

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