Caro Vincenzo Sibillo, collega del Liceo classico Leone XIII
mi attengo al registro del «lei», anche se tra colleghi è normale darsi del tu, ma credo che lei lo abbia fatto per mantenere la distanza dal «pericoloso» D'Avenia, che è solo un insegnante di 34 anni, con le lotte e le difficoltà di tutti gli insegnanti, e delle idee.
La ringrazio per la lettera che è giunta come gradita conferma di ciò che dicevo nell'intervista sulla crisi del classico, proponendo una piccola riforma, a partire dai professori. Su questo lei purtroppo sorvola, limitandosi a incasellarmi in una specie di fenomeno paranormale: «se poi il messaggio è che non siamo tutti come il prof. D'Avenia, su questo penso che siamo tutti d'accordo». Troppo comodo. Lei dice che oggi il professore di lettere (classiche in particolare) «è un uomo solo e un soldato di trincea». Mi spiace, ma io non mi sento in guerra con nessuno e se lei lo è le auguro finisca presto. Nessuno sta bene in trincea. Io sono in bella compagnia degli autori che studio e insegno, non ho nemici che, dal contenuto della sua lettera, immagino siano i ragazzi (e i genitori dietro di loro). Il paragone che usa però è illuminante: proprio questo è il problema, molti oggi nella scuola si sentono in trincea. E lo capisco. La scuola è diventata una guerra, ma se cè una cosa che dobbiamo cambiare è proprio questa. La scuola è una relazione tra genitori, docenti e studenti, alleati verso un fine comune: l'educazione armonica degli stessi studenti, docenti, genitori, in un rapporto che se curato, anche con fatica, porta tutti a crescere. Come mai invece tutti si fanno la guerra? Non sarà che non stiamo curando quella relazione come sarebbe necessario? Un maestro è colui che risveglia in un altro essere umano forze e sogni potenziali e ancora latenti. Egli è chiamato a fare della propria unicità e del proprio intimo coltivarsi (la sua cultura) un dono al discepolo, che altrimenti non desidererà coltivare sé stesso, scoprendo chi è e che storia irripetibile è venuto a raccontare. Il maestro in sostanza è un pro-vocatore: uno che chiama l'altro ad assumere la propria vita come compito, come vocazione. Io non sono in trincea, non mi nascondo sottoterra, ma lavoro la terra. Io sono un giardiniere che si prende cura delle sue piante, le difende e le aiuta a crescere dritte verso la luce per mettere radici più profonde. La cultura è il concime, l'acqua, le cure perché il seme dia frutto. Inoltre non sono per niente «solo» come dice lei di sentirsi. Faccio parte di una comunità che per un ragazzo è, dopo la famiglia (se cè), il primo esempio di ricerca di un'armonia di intenti che, con una fatica quotidiana, in cerca della conoscenza per la verità («Conosci te stesso», «Diventa ciò che sei», dicevano quei Greci che lei ben conosce). Ho colleghi con cui collaboro e cerco di costruire progetti e ideare strategie che aiutino i ragazzi a fare esperienza di quei valori perenni (non «antichi» come li definisce lei), che il mondo classico ci ha lasciato, facendo uso di strumenti nuovi, alla portata dei ragazzi, senza per questo banalizzare ciò che trasmetto. Non sono un insegnante straordinario, ma uno che cerca di fare bene il proprio lavoro, perché lo ama, come lei. E il nostro lavoro si svolge su tre fronti: amare e conoscere la propria materia, amare e conoscere i ragazzi a cui devo insegnarla, amare e conoscere come insegnare quella materia a quei ragazzi. Crediamo forse che il mondo classico solo perché tale li debba affascinare? Siamo noi invece testimoni che riescono ad animare le loro vite, proprio perché la nostra vita è animata da ciò che studiamo. Se ciò non accade è perché non apriamo i canali giusti perché quella esperienza che ha cambiato e cambia noi ogni giorno cambi anche loro. Occorre lavorare sul «come». Per questo propongo di far studiare il latino sin dalla prima media, come ha fatto mio padre e i miei alunni non sono diventati più scemi di lui (è la scuola che è rimasta la stessa). Ho colleghi bravissimi, di ogni età, che riescono a fare appassionare alla lingua greca e latina con il metodo natura, come fosse linglese (cosa che a me non convince del tutto). Ho una collega che al ginnasio ha fatto mettere in scena le Baccanti ai suoi ragazzi. Quale ginnasiale legge le Baccanti a 15 anni? Io faccio leggere l'Odissea per intero al primo anno delle superiori (anche ai ragazzi dello scientifico). Quando ho insegnato alle medie ho introdotto la lettura integrale dellEneide in prima media: Eneide integrale. Si tratta di trovare i modi adatti alletà dei ragazzi, senza risparmiare loro nessuna fatica. Per amore si è disposti a faticare, per semplice dovere no. I ragazzi chiedevano di fare «più Eneide».
Non credo più alle requisitorie contro l'ipod. Lo uso anche io, spesso esagerando come i miei alunni. Tutto dipende dal mettersi a tavolino con altri colleghi, anche quelli delle medie e delle elementari e capire come adattare ciò che è perenne alle varie fasi scolari. Fra qualche giorno andrò a parlare di Odissea ai bambini dell'asilo della mia scuola, che stanno lavorando sul poema omerico. Da lì si comincia. Lei dice che «i prof. del classico sono rimasti gli ultimi a credere in quello che insegnano, perché hanno sperimentato gli studi umanistici e ne hanno apprezzato già la ricchezza e la bellezza». Per fortuna è così, ma aggiungo che dall'ultimo rapporto Censis risulta che «la maggioranza degli italiani è convinta che la bellezza abbia una funzione educativa. Il 70% è convinto che vivere in un posto bello aiuta a diventare persone migliori». Forse i professori del classico non sono esseri in via di estinzione e non sono così soli come pensano. Tutti i problemi che lei solleva sono veri: la difficoltà alla concentrazione dei ragazzi, le distrazioni della musica, la percezione dell'inutilità di queste materie. Ma un giardiniere è tale perché trova il modo di far fiorire il giardino nelle condizioni che gli sono date. A motivo dei libri che scrivo, sono stato in decine di scuole a incontrare ragazzi e ci sono colleghi di lettere che insegnano nei tecnici e nei professionali (loro sì che sanno cosa è una trincea) che riescono a ottenere risultati eccezionali, con quel terreno, con quelle piante. Devono mettersi in gioco al 100% altrimenti non entrerebbero neanche in classe, devono pensare fuori dagli schemi, devono creare, non basta raccontare ciò che sanno e amano. È vero i genitori a volte remano contro, ha ragione. Ma anche loro vanno coinvolti. Forse per primi. Bisogna che la scuola si allei con loro sin dalle elementari. La scuola va ripensata, riformata, cambiata. Io ho rinunciato sui tempi brevi a risposte politiche, però intanto voglio fare un lavoro che abbia senso ogni giorno e per riuscirci devo entrare in dialogo con studenti e genitori, trovare il canale aperto perché quei valori perenni afferrino i miei interlocutori e facciano percepire la necessità educativa della storia di Ulisse. Nel mio recente romanzo (Cose che nessuno sa), parlo continuamente dell'Odissea e moltissimi ragazzi mi scrivono che dopo aver letto il romanzo hanno comprato e letto l'Odissea e non si aspettavano che fosse così bella (e che ci volessero 12 ore per leggerla tutta e noi non lo facciamo in 5 anni di classico). Lo ribadisco: i professori appassionati e competenti come lei e tanti altri non devono sentirsi in colpa o minacciati dalle mie proposte, io quello che propongo è il ripensamento del «come». Se ai ragazzi tutto quello che noi abbiamo da dare non arriva, il problema non è di «sistema», ma di «persone» che ci vivono e lo alimentano. Dobbiamo fermarci e riflettere, trovare soluzioni nuove. La cultura dà frutto solo se prende tutta la persona nel suo concreto esistente, non in astratto, e i ragazzi spesso ravvisano nella vita della scuola una sorta di grande finzione.
Buon lavoro di tutto cuore e grazie ancora per la sua lettera.
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