Anche le mucche piangono. Se sai guardarle negli occhi e fissarne le pupille, umile e silente come loro, ne scoprirai le lacrime. Non hanno il rumore dei campanacci che portano al collo, mentre vagano libere nei pascoli. Anche per questo, il patibolo per loro è sempre aperto. E meste. Incolonnate. Mute. Accondiscendenti. Sottomesse a una sorte crudele, decisa dagli uomini, offrono il capo alla mannaia vigliacca. Mansuete come hanno vissuto. In fila per uno, verso un Golgota che darà le loro carni in pasto a chi, per anni, se ne è preso cura. Per interesse. E se ne ciba. Dopo il supplizio. L'ultimo.
Processione di morte.
Scendevano dal treno una dopo l'altra. Tra agnelli. Buoi. Tori. Cavalli. E vitelli. I loro figli. Uniti in un unico destino. Dalle stalle e i verdi prati a una padella in tavola. La cappa del funebre odore del massacro pesava lugubre su quel trapezio irregolare di vie. Solari e Foppa in longitudine. Coni Zugna e Montevideo in latitudine. Oggi è un parco, ma fino agli anni Trenta fu un capolinea. Di vite e tragitti. Esistenze opache. Muggiti in chiaroscuro. Quel reticolo di strade era uno scalo ferroviario. E vi arrivava il bestiame. La meta era lì a pochi passi. Oltre il terrapieno dei bastioni e le mura spagnole. Scheletri gettati con disinvoltura oltre la cinta, sotto la quale si apriva un sottopassaggio in formato galleria. Il rumore sordo degli zoccoli sul selciato assomigliava ai rintocchi di una morte annunciata. Gli ultimi metri verso la fine. Ma la luce in fondo al tunnel era il buio eterno. Gli animali entravano dove non sarebbero più usciti. Se non come carcasse e ossa accatastate a cumuli. Al di là stava il macello e ora è piazza Sant'Agostino. I bovini, dallo sguardo terreo e arrendevole, vi si dirigevano senza più speranze. Verso un sacrificio che non aveva spiegazione. Nè giustizia. Erano passi che costavano, i loro. Respirando il fetore del massacro che esalava da quel fetido quadrilatero di vie, solcato anche da un fiume.
L'Olona rigurgitava le sue acque dietro quella vecchia ferrovia. In un letto, oggi chiuso. Blindato. Invisibile. Del quale si intuiscono pallide tracce, tra lussuosi palazzi che sembrano quasi galleggiarvi sopra. Quella stazione l'avevano voluta gli industriali. E se l'erano pure pagata. A colpi di dobloni. Con il miraggio di vederli raddoppiare anche grazie a quei trasporti che lambivano la città. Oltre piazza Napoli erano prati, in quel primo scorcio di Novecento.
I binari correvano verso Porta Genova a sud. E proseguivano a ovest. I treni provenivano anche da un altro smistamento. Lo scalo merci del Sempione. Le locomotive spuntavano da via Dezza, che allora non aveva case né giardini. Solari, per così dire, era uno snodo. Arrivavano uomini e bestie. Gli uni per lavorare. Le altre per morire. Ogni anno ne venivano uccise 125mila. Giungevano dalle cascine fuori porta, accompagnate dagli allevatori. E sempre dalle campagne approdavano gli operai, diretti alla catena di montaggio di una Milano industriale che, alle spalle di questo quartiere, aveva visto spuntare i primi colossi.
La Fabbrica lombarda prodotti chimici aprì in via Tortona nel 1873. La Riva Calzoni produceva turbine in via Solari dal 1884. La Osram in via Savona dal 1897. Lungo il Naviglio si aggiungevano le ceramiche della Richard Ginori. E poi la Max Meyer. E la vetreria Bordoni. Colonne di anonime tute blu si riversavano nei dintorni della ferrovia. Il capoluogo cresceva. Negli anni Venti contava 700mila abitanti, nel '38 erano già un milione e 200mila.
Poi, con il Ventennio, scoppiò la rivoluzione. E trasformò questa fetta di città. Ne cancellò la puzza di morte. L'odore acre dell'angoscia. Il profumo dello schifo. I proiettili sparati erano disegni urbanistici. E distrussero il quartiere. Il piano regolatore che istituì il macello nel 1863 e lo ampliò dodici anni dopo, ad opera dell'architetto comunale Agostino Nazari, finì nella carta straccia. Come l'Italia liberale. I suoi funzionari. E i suoi scherani. Ne vennero altri e decisero che il mattatoio andasse abbattuto. In realtà traslocò in via Molise. E ad Enrico Casiraghi, successore di Nazari, fu commissionato un parco in quella valle di lacrime.
L'intero isolato finì sventrato. Le ruspe divorarono la stazione e ci presero gusto. Superarono i bastioni e rasero al suolo anche la forca dei bovini. Scomparve pure l'Olona, interrato nel sottosuolo. Poi deviato. E rimasero a nudo oltre quattro ettari di terreno. Vi prosperano arbusti fioriti come ortensie e rose. Piante comuni come Ippocastani e Carpini. Specie più rare come i Cedri dell'Himalaya e dell'Atlante. Alberi fioriti come le magnolie. La vegetazione fagocitò i miasmi del passato e una fontana in roccia ne ravvivò i viali. Nel '35 il parco fu completato, la zona aveva un volto nuovo. A deturparlo fu una delle bombe del '43. Cadde al margine tra via Montevideo e via Foppa e creò una voragine. L'onere progettuale della risistemazione toccò a un quarantenne professionista dell'ufficio tecnico del Comune, Arrigo Arrighetti. Dall'esplosione passarono vent'anni, ma nel '63 il parco ospitò una piscina che dal polmone verde prese il nome.
Oggi è in ristrutturazione, ma per tutti resterà la Solari, anche se il giardino ha cambiato nome. Dal 2006 è intitolato a don Giussani, il padre di Cl che ben poco ebbe a che fare con quest'oasi cittadina. L'alternativa forse fu Bettino Craxi che, a pochi metri da lì, a lungo visse e abitò. Ma altri miasmi - quelli di Tangentopoli, stavolta - probabilmente soffocarono l'idea. Eppure in questo reticolo di strade, sono di casa politici, assessori e consiglieri. Perfino un avvocato. Giovane e dal triste futuro. Quel Lorenzo Claris Appiani, ucciso ad aprile a Palazzo di giustizia.
Il legame del parco con la morte, insomma, non è mai svanito del tutto. Negli ultimi giorni del 2014 fu trovato il corpo di un uomo senza vita. Riverso accanto a una panchina. A scoprirlo fu un passante che portava a spasso il cane. I veri padroni di questo polmone verde, oggi, sono loro. Giorno e notte è un happening a quattro zampe, tanto che perfino la vigilanza poco si azzarda a punire chi non pulisce. Il giallo di quello sconosciuto esanime durò lo spazio di poche ore. Era un clochard ucraino. Assassinato dal freddo. Ora la strega con la falce si abbatte sulle piante. Colpa del metrò che verrà. Si chiama progresso. E torneranno i treni. Sotterranei, però. Una fermata sarà appunto «Foppa-Solari». La motosega doveva tagliarne a centinaia e aprire un cantiere immenso per le talpe di scavo. Lo sterminio forse non ci sarà, ma i primi alberi sono già caduti. Cicli di vita. Destini di morte.
S'intitola «Porta di ritorno» e, dal '93, fa bella mostra di sé nel bel mezzo dell'ex parco Solari, ribattezzato in memoria di don Giussani.
La scultura si trova a metà dell'asse che conduce da via Bragadino a via Valparaiso e, nelle intenzioni dell'artista, è una sorta di santuario. Vi si passa attraverso assaporando il silenzio del cielo prima di immergersi nuovamente nel traffico caotico della città. Molte le critiche dei profani: «Sembrano due cornette del telefono accostate».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.