Sabrina Cottone
Frutta a metà mattina, menu equilibrato, aperture alle cucine di altri Paesi ormai abituali per molti, ma non per tutti. Via la plastica e dentro piatti e bicchieri bio. No alla schiscetta da casa per motivi igienici. Menu che rispettano le altre religioni, i bambini musulmani che non possono mangiare carne maiale, ma non solo. La storia di Milano ristorazione passa attraverso dibattiti accesi, perché non c'è nulla di più culturale del cibo. Come scrive Feuerbach, «l'uomo è ciò che mangia» e perché migliori un popolo, bisogna che si nutra meglio.
Filosofia ogni giorno sulla tavola di settantamila bambini milanesi che mangiano non quel che prepara la mamma né il papà, e neppure la gastronomia sotto casa, ma i piatti della dieta scelta e pensata da Milano ristorazione, controllata per il 99 per cento dal Comune. Un ristorante così grande che è quasi impossibile immaginarlo.
Il tema, come è ovvio, appassiona genitori e politici, come l'assessore regionale Valentina Aprea, esperta di scuola, che chiede maggiore flessibilità, o la vice sindaco, Anna Scavuzzo, che insiste sulla necessità di fornire un servizio sociale e pasti completi ed equilibrati per tutti. Adesso si apre anche il dibattito economico.
La proposta è di Stefano Parisi. A lui piacerebbe aprire ai privati il servizio, ma ammette che non è così semplice come appare. «Oggi non c'è un'offerta privata in grado di gestire Milano ristorazione, la più grande azienda al mondo di gestione di servizi per numero di pasti che fornisce ogni giorno». Arriva la domanda: «Perché il pubblico deve cucinare i pasti? Come fa a essere più efficiente del privato?».
Parisi propone una privatizzazione, ma mette anche dei paletti: «Dov'è il privato in grado di offrire un servizio all'altezza dell'ipersensibilità delle famiglie su questi temi? Si tratta di tematiche sociali e politiche e bisogna mettere standard elevati da rispettare».
Non è un attacco al pubblico. «Gli do una giustificazione: è inefficiente perché opera in un contesto di diritto amministrativo e non di diritto civile come il privato». Non basta dire: privatizziamo. Bisogna che i privati che concorrono per gestire il servizio rispettino i criteri fissati dallo Stato. Se Milano ristorazione è un grande esempio, non è l'unico: «A2A va oltre il Comune. Perché ci deve essere una partecipazione pubblica?». E ancora: «Anni fa a Assolombarda da direttore generale del Comune ho detto: dobbiamo cambiare, ci servono grandi imprese per eliminare graffiti, fare le pulizie, riparare le strade».
Il problema, la tesi generale, è la legge del 2016 sui
servizi pubblici locali, voluta dal governo, che non va a toccare le partecipazioni locali: «Per non cedere la partecipazione il Comune deve solo dichiarare che è strategica. E con il fiorire di giuristi che c'è in Italia...».