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Servello, il Famedio e l'odio che non passa

L'Associazione partigiani contesta la decisione del Comune di ricordarlo tra i milanesi illustri

Servello, il Famedio e l'odio che non passa

Si leggeva ieri su Repubblica un ampio resoconto dell'ennesima fatwa dell'Anpi. L'Associazione nazionale partigiani che ancora una volta si scaglia indignata contro l'ennesimo attentato all'Italia democratica e repubblicana. E soprattutto alla Milano medaglia d'oro allea Resistenza. «È un errore onorare Servello al Famedio» recitava il titolo grande, citando le parole del presidente Roberto Cenati dopo la decisone del Comune di ricordare il politico missino al Cimitero Monumentale. «Sarebbe il primo uomo di destra a cui viene riservato questo onore», sottolinea il vice presidente del consiglio comunale Riccardo De Corato, la cui proposta è stata accettata dalla commissione formata dall'ufficio di presidenza e dagli assessori Franco D'Alfonso e Filippo Del Corno. Un sì unanime e bipartisan. «Forse - aggiunge De Corato - a infastidire è che a deciderlo sia stata proprio un'amministrazione di sinistra».

Proprio così. Perché per l'Anpi il reato di leso antifascismo è ancora una volta il desiderio di ricordare un defunto. Il sangue di un vinto arrivato per sua fortuna (e benedizione del destino) a trovare una morte serena nel suo letto, alla veneranda età di 93 anni. Mica da pericoloso eversivo. Appassionato di calcio e grande interista, fu nel consiglio di amministrazione dell'Inter di Helenio Herrera e Angelo Moratti. Dal 1958 in parlamento per il Msi, dal 1996 senatore e capogruppo di Alleanza nazionale alla Bicamerale, traghettò la destra nell'universo berlusconiano. Il 28 febbraio 2006 la comunicazione che non si sarebbe ricandidato. Gianfranco Fini lo ringraziò e il giorno della morte, il ferragosto del 2014, lo ricorderà come «uomo generoso e leale, ci mancherà la sua coerenza e la sua onestà».

Ma non solo. Perché nel 2006 il Comune gli assegnò l'Ambrogino d'oro, la massima onorificenza della città. E lo stesso anno Servello fu nominato Grand'ufficiale della Repubblica. Eppure, secondo l'Associazione partigiani, il suo nome non deve essere scolpito nel marmo del Famedio, lì dove viene onorato il ricordo dei milanesi illustri. «Non rinnegò mai il Fascismo», la sentenza inappellabile dei partigiani che gli imputano anche l'organizzazione della manifestazione del 12 aprile 1973, finita negli scontri nei quali venne ucciso l'agente Antonio Marino. Peccato che da quei fatti i vertici milanesi del Msi furono assolti da una sentenza del tribunale.

Il resto è vecchio armamentario di una sinistra che vive solo di logoro antifascismo. Un furore ideologico che impedisce di concedere quell'onore delle armi che già la storia ha concesso a chi a Fascismo ormai già morto e sepolto ha dedicato la vita a un impegno fedele all'interno delle istituzioni repubblicane. In un partito, per giunta, rimasto in piedi di fronte alle spranghe dei compagni sotto cui cadde col cranio sfondato il diciottenne del Fronte della gioventù Sergio Ramelli o alle pallottole che uccisero l'avvocato e consigliere provinciale del Msi Enrico Pedenovi. Ma anche agli assalti altrettanto temibili dei tribunali che portarono in carcere tanti giovani innocenti. «Senza di lui - ricordò un commosso Ignazio La Russa il giorno della morte - non avremmo resistito a Milano agli anni della ingiusta criminalizzazione e alla violenza rossa».

Pagine della storia d'Italia che l'Anpi vorrebbe stracciare. L'Anpi, un'associazione nella quale ormai se non altro per ragioni anagrafiche, i veri partigiani sono oggi rimasti ben pochi.

E che si guarda bene dal ricordare l'adesione al comunismo di Giorgio Napolitano a cui è stato riservato addirittura l'onore di diventare presidente della Repubblica. E, dunque, di tutti gli italiani. Avesse vinto la sua parte (e quella dei partigiani rossi dell'Anpi), a Roma sarebbero arrivati i carri armati russi. E difficilmente avremmo avuto una Repubblica.

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