Non era una notte buia e tempestosa, era la notte tra il 16 e 17 settembre del 2000. Tardi la sera, diciamo le tre. Ci trovavamo a Milano all'incrocio tra via Molino delle Armi e Corso Italia, stavamo attraversando corso Italia per proseguire verso Santa Sofia. Ero in Vespa con il mio fidanzato, la prima storia importante nella mia vita da ragazzina, stavamo tornando a casa. Avevo 19 anni allora, primo anno di università, lavoravo come stagista al Milano Film Festival: un'esperienza arricchente non certo economicamente (era gratuito), ma s'imparavano tante cose. Era tardi perché eravamo rimasti in zona Ticinese a parlare, in inglese, con amici e i registi o attori stranieri che erano intervenuti direttamente alle giornate di proiezioni. Era proprio l'ultimo giorno di gara. Quando mi risvegliai e lentamente ripresi a parlare, quasi afona a causa della tracheotomia, dopo circa due mesi, mi esprimevo solo in inglese. Medici e infermieri non capivano cosa dicessi. Parlavo fluentemente, come se lo avessi allenato fino a poco prima. La gara, per me, cominciava allora: dopo un mese e mezzo di coma al Policlinico di Milano, ora mi trovavo a Villa Beretta, il presidio dell'Ospedale Valduce a Costa Masnaga (Lecco), una struttura dedicata alla Medicina Riabilitativa, volta al recupero del miglior livello di funzione possibile delle persone con problematiche derivanti da disabilità determinate da malattie congenite o acquisite. La mia disabilità non era congenita, era acquisita, determinata da uno scontro a quell'incrocio tra Corso Italia e la circonvallazione interna. Mentre noi in Vespa attraversavamo la strada, infatti, arrivava sempre su Corso Italia correndo sulla corsia dei taxi verso il centro città un'auto con a bordo una ragazza straniera. Lei procedeva a forte velocità, e non ha frenato in tempo, investendo la Vespa su cui viaggiavamo noi due. I rilievi della Polizia hanno constatato che la ragazza al volante aveva nel sangue un'eccessiva dose di alcol, ben al di sopra del livello consentito sebbene fosse stata sottoposta al test ore dopo l'accaduto. L'auto era di un italiano (risultato poi un pregiudicato), assicurata con una sola polizza per quella dell'incidente e una seconda auto. Grazie alla giustizia e grazie alla sanità (prima di tutto ai volontari della Croce Rossa che ci hanno soccorso) io ho potuto curarmi per quattro anni in ospedale e avere un rimborso nonostante il proprietario dell'auto fosse un truffatore. Certamente, però, non auguro a qualcuno di dover reimparare a mangiare da sola, a parlare, a leggere, a camminare, a non sporcarsi con le proprie secrezioni e poi, una volta riprese le fondamentali funzioni, non auguro a nessuno di dover ricominciare da zero quanto a capacità mnemonica, di concentrazione e attenzione (il trauma cranico mi aveva causato anche la perdita della memoria recente, non ricordavo niente di ciò che accadeva).
Se mi sono laureata, se ora conduco una vita quasi normale (pur avendo dei danni permanenti residui), lo devo alla mia forza di volontà e a tutte le persone che mi sono state vicine. Il fatto che quella notte la mia vita si sia fermata per un po' è ancora un peso dentro di me, e l'esperienza del coma, ma soprattutto della lunga e difficile ripresa, è un dolore che ancora mi porto dentro e con cui quotidianamente mi confronto. Per quanto riguarda la coppia che ha stoppato la mia vita per anni, il proprietario dell'auto e la guidatrice, non si sono neanche visti alle udienze in quanto irreperibili. Comunque il tribunale ha condannato l'assicurazione del proprietario dell'auto a pagare.
E' assurdo che si possa guidare come in un luna-park nella pista di un autoscontro, ed è assurdo che dopo aver causato un incidente così si possa continuare a circolare invece che essere in prigione. Non si può uccidere né rovinare una vita per incoscienza. Per questo è giusto che l'omicidio stradale diventi un reato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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