Cronaca locale

Villa Necchi, l'arte di Negri e i nuovi talenti della scultura

Nella dimora storica e nel giardino, un'antologica del maestro valtellinese stimato da Giovanni Testori

Villa Necchi, l'arte di Negri e i nuovi talenti della scultura

«Lo scultore, forse, è sempre un orfano che cerca i suoi padri, non un padre che cerca dei posteri». Queste parole provengono dagli scritti dell'artista valtellinese Mario Negri - solo omonimo del filantropo lombardo a cui si deve la nascita dell'istituto farmacologico milanese - poco noto forse al grande pubblico ma figura certamente da riscoprire nella storia dell'arte italiana. A questo artista naturalizzato a Milano e scomparso alla fine degli anni Ottanta, il FAI dedica una significativa mostra nell'affascinante scenario di Villa Necchi Campiglio, che dopo «la Stanza» di Filippo De Pisis si conferma luogo di approfondimento sul nostro Novecento. La mostra di Negri, attivissimo in una ricerca che accolse pienamente la lezione del Fronte nuovo delle arti pur mantenendo ferma la sua personalissima individualità, si compone negli spazi interni e esterni della villa-museo disegnata dal Portaluppi e, per tutto il weekend, è anche un'occasione di confronto con le nuove generazioni della scultura con un progetto in collaborazione con l'accademia Naba. Dedicare un focus alla scultura di ieri e di oggi rappresenta di per sè un'iniziativa interessante in un momento storico in cui, sempre di più, le arti tendono a connotarsi sotto la luce della totale contaminazione. Una ragione in più per una visita ad un luogo suggestivo e ricco di preziose testimonianze sul Novecento italiano, tra gli arredi déco e una raccolta d'arte arricchite dalle collezioni de' Micheli e Gian Ferrari. Tra queste opere, che Sironi, De Chirico, Martini e Wildt, il curatore Luca Nicoletti ha dato vita ad un percorso che vede le sculture postcubiste di Negri integrarsi e quasi fondersi nelle sale di Villa Necchi.

L'occasione è preziosa per conoscere un artista-artigiano e intellettuale che visse una vita riservata ma tuttavia tenne un fil-rouge con i contemporanei e soprattutto con figure di spicco della critica come Giovanni Testori. Di lui lo scrittore novatese scrisse che egli aveva raggiunto nella scultura «una serenità, intesa come denso, placato dominio di d'ogni dramma e, forse, come deliberata volontà di ridurre ogni eccitazione espressiva alla fermezza costruente». Una fermezza testimoniata dalla totale vocazione ad un medium, quello della scultura, che non identificava in particolari codici estetici ma in un'educazione, disciplina e coscienza formale che appartengono forse più ai valori dell'antichità che alla lezione cubista. Amante della scrittura come dell'artigiana manualità, Negri volle esprimere questi concetti in un volumetto pubblicato nel 1985 (due anni prima della morte) dall'editore Vanni Scheiwiller, dal titolo emblematico di All'ombra della scultura. In quelle pagine, Negri dichiarava che «piuttosto che tradire o mistificare ciò che per natura io sono, o fingere di essere in meglio ciò che non sono, preferisco girare dalla parte dell'ombra e smemorarmi nel nulla». L'artista si dimostrò cosciente dei riferimenti acquisiti in una stagione, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, che fu espressione di una scultura figurativa capace di imporsi a livello internazionale. Figure come Giacomo Manzù e Marino Marini ma anche, come egli stesso annota, Aristide Maillol, Arturo Martini, Alberto Giacometti ed Henry Moore, ebbero su di lui una forte influenza talora riscontrabile nella modernità dei suoi busti e dei suoi ritratti senza volto. Ma «lo scultore retico pedemontano con ascendenze camune», come amava autodefinirsi, non tradì mai un'autonomia che poggiava fermamente sulle sue radici culturali e sui grandi archetipi.

Agli «scultori giovani» dedicò uno scritto a cui il Fai si è ispirato per questa domenica dedicata alla «mostra nella mostra», con una ventina di nuovi talenti della scultura selezionati da Jean Blancheart e Stefano Boccalini.

Commenti