«Il mio Napoleone? Robespierre di giorno Casanova la notte»

Il regista Patrice Chéreau parla del nuovo film: «Un uomo che ha vissuto, poi si è murato nel silenzio»

Enrico Groppali

da Palermo

A sessantun anni dichiarati, Patrice Chéreau l’ex-enfant terrible del teatro francese, è un vulcano in eruzione che, tra la prosa, l’opera lirica e il cinema non ha né si concede la minima tregua. Tanto che, se incontrarlo è entusiasmante, c’è sempre in agguato il rischio di essere contagiati oltre misura dall’irresistibile vitalità di questo folletto agitato dal moto perpetuo. Ma lasciamolo parlare.
Monsieur Chéreau, è vero che entro l’anno prenderà finalmente corpo il progetto di Napoléon, il kolossal più reclamizzato, e finora tormentato, del cinema europeo?
«Stavolta pare proprio di sì. Al Pacino è impaziente di cominciare a girare, e io non sto più nella pelle. Ma, intendiamoci, il mio film al di là dell’impegno produttivo vuol essere il ritratto intimista di un uomo, vittima consenziente di un’epopea destinato a travolgerlo».
Non le sembra esagerato o sviante un simile ritratto di Bonaparte imperatore?
«E perché mai? Ha mai letto i biglietti ansiosi e frenetici che il Liberatore inviava a Giuseppina durante la Campagna d’Italia?».
Sono la testimonianza di un uomo innamorato...
«Ma solo fino a un certo punto. Direi piuttosto che sono il documento impressionante della sua schizofrenia. Da una parte c'è lo stratega che gioca col sangue sul campo di battaglia mentre, tra le righe, s’insinua impenitente il libertino che vuole assumere su di sé il compito di rovesciare la morale».
Come, come?
«Si dimentica troppo spesso che Napoleone è un rivoluzionario nato. Che indossa la maschera di Robespierre e poi la rivolta come un guanto, che sposa Maria Luisa ma di notte va ancora in cerca della Beauharnais...».
Sarà. Ma in quest’ottica il suo film non somiglierà troppo a Intimacy, il film sulla battaglia dei sessi che anni fa le ha fatto vincere l’Orso d'Oro a Berlino?
«Non direi. Il mio Napoléon, semmai, sarà un nuovo Marcel Proust».
Un paradosso che farà discutere, non crede?
«Non sono d’accordo. Anche Proust, cui io ho dato la voce nel Tempo ritrovato, il film di Raul Ruiz, prima ha vissuto e poi si è murato nel silenzio. Come Bonaparte a Sant’Elena».
Vuol dire che, all’ultimo esilio, Napoleone seguirà la stessa traiettoria di Gabrielle, l’eroina del suo ultimo film che tanto scalpore ha suscitato al Festival di Venezia?
«Esattamente. Una volta, ai miei inizi, stabilivo una netta cesura personaggi femminili e maschili. Ma mi sbagliavo. L’unica variante del comportamento umano non va rintracciata nel sesso ma nel modo di rapportarsi agli altri».
Ossia?
«In Gabrielle è la donna a non poter, nemmeno volendo, abbandonare l’uomo col quale condivide il suo monotono menage coniugale ed è proprio la sua indecisione patologica a sfociare in tragedia. L’uomo Napoleone invece, al di là delle sue impennate sentimentali, è vittima di un altro problema».
Quale?
«Quello di non riuscire a conciliare alla resa dei conti quando vegeta, prigioniero degli inglesi, sull'atollo che sarà la sua tomba, l’ego privato che ha represso a favore dell'uomo pubblico, con la sua condizione di escluso. Per questo motivo, nel film, introdurrò una variante significativa».
Di che tipo?
«Ricorrerò al sogno. Molte delle battaglie saranno evocate in flashback, lasciando nello spettatore il dubbio sul loro effettivo svolgimento».
Questo per quanto riguarda il cinema. Ma... e il teatro? È vero che è sempre meno interessato alla prosa?
«Il futuro del teatro consiste nella comunicazione diretta col pubblico. Portare in giro una testimonianza sofferta come il rapporto di Hervé Guibert con la morte nella lettura-spettacolo Le mausolée des amants che recito ogni sera dovunque mi capita mi dà una soddisfazione profonda».
Di che genere?
«Bisogna proporsi allo spettatore da apostoli della verità che credono nel futuro dell’uomo».
Anche nell'opera? Lei, di recente, ha celebrato Mozart con un Così fan tutte che presto vedremo a Parigi...
«Tutto sta ad intendersi. Anche l’Opera è comunicazione diretta. Come succedeva con Verdi nel Risorgimento con i cori del Nabucco che inneggiavano all'indipendenza nazionale».


Tuttavia Chéreau preferisce il cinema, non è una contraddizione?
«No, perché un film è come un libro. Che resiste al tempo come una piccola finestra aperta sull’'eternità. Domani, da quelle immagini, forse sorgerà un altro sogno».

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