Il mito dell’uninominale Sorpresa, il sistema perfetto si è rotto

Se ci avessero pronosticato che dopo una elezione la Gran Bretagna, il Paese politicamente stabile per antonomasia, si sarebbe trovato in una situazione in cui il vincitore (il conservatore Cameron) non ha la maggioranza per governare, lo sconfitto (il premier laburista Brown) mantiene provvisoriamente ma legittimamente la carica di premier e sta addirittura brigando per riottenerla e l’aspirante terzo incomodo (il liberaldemocratico Nick Clegg), pur avendo guadagnato voti ma perso collegi, è l’arbitro della situazione, avremmo stentato a crederci. Eppure, è così: la consultazione del 6 maggio, che ha regalato a Londra il primo «Parlamento appeso» dal 1974, ha anche infranto il mito del collegio uninominale a turno unico, da secoli colonna delle democrazie anglosassoni, come strumento più efficace per garantire la governabilità e certo creato sconcerto tra i suoi molti ammiratori italiani ed europei. I suoi critici hanno sempre lamentato che il sistema funziona bene soltanto in presenza di due soli partiti (anche ideologicamente non coesi) e che sacrifica in maniera inaccettabile le minoranze, ma gli hanno riconosciuto il merito di garantire chiarezza e soprattutto di fare in modo che i governi escano non dalle famigerate «stanze piene di fumo», ma direttamente dalle urne. In effetti, esso mortifica da decenni i liberaldemocratici (e i loro predecessori liberali), i quali hanno ottenuto sempre un numero di parlamentari nettamente inferiore a quello che avrebbero avuto con il sistema proporzionale, ma ha permesso a personaggi come Margaret Thatcher e Tony Blair di dominare incontrastati la scena politica inglese pur essendo sempre rimasti lontanissimi dalla metà dei voto validi, proiettando per un decennio l’immagine di un potere quasi assoluto.
Adesso il giocattolo si è improvvisamente rotto. L’ascesa del terzo partito, che a un certo punto della campagna elettorale, grazie alle capacità televisive di Nick Clegg sembrava quasi irresistibile, è stata molto inferiore alle previsioni (23% dei voti invece del 30% previsto dai sondaggisti nel momento di maggior fortuna), ma è bastato per scompaginare i giochi, impedendo ai tory di sottrarre ai laburisti un’altra trentina dei collegi marginali cui aspiravano. Nello stesso tempo, il meccanismo ha consentito a una pletora di partiti localistici, scozzesi, gallesi e irlandesi, di occupare un numero senza precedenti di seggi ai Comuni, dando loro un potere negoziale quale non avevano mai avuto.
È possibile che la posizione da ago della bilancia conquistata dai libdem, e la loro decisione di condizionare qualsiasi accordo, di coalizione o di appoggio esterno, all’adozione di una forma di proporzionale produca infine anche in Gran Bretagna una legge elettorale più simile a quelle del resto dell’Europa. Lo hanno già fatto, per necessità locali, Australia e Nuova Zelanda (che doveva accomodare il partito dei Maori).

Ma per i conservatori potrebbe essere un rospo troppo grosso da inghiottire; e Cameron potrebbe decidere, dopo aver guidato, finché sarà possibile, un governo di minoranza, di tornare alle urne pur di difendere la tradizione.

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