La moda è politica ma non corretta

di Daniela Fedi

Vien voglia di urlarlo in romanesco un po' perché «Mo' basta» suona meglio di «Adesso piantatela» e un po' per ricordare agli americani che noi italiani con Roma capitale abbiamo alle spalle 3000 anni di storia. Loro, invece, arrivano massimo al totem dei Sioux e li hanno pure sterminati. Agli inglesi sul fronte dell'educazione non si può dire niente: sono senza dubbio più civili di noi a meno di non aver bevuto come spugne (cosa che fanno spesso) e che non ci siano in ballo delle partite di calcio cui tengono molto. Quanto ai francesi stenderemmo un pietoso velo: nella maggior parte dei casi hanno modi tanto raffinati quanto sussiegosi, una cosa che un grande romano come Alberto Sordi nei panni de Il Marchese del Grillo avrebbe sintetizzato nel celebre «Io so io e voi non siete un c...zo». Ecco quindi perché nel bel mezzo delle sfilate di Milano trattate a pesci in faccia da stampa e compratori stranieri che tentano di ridurle a 3 giorni scarsi, vien proprio voglia di stigmatizzare certi comportamenti per cui ci vorrebbe una risposta nel napoletano di Totò: O pernacchio.

Partiamo dal politically correct. Gli americani hanno accusato di razzismo prima Prada e poi Gucci per ragioni che dire pretestuose è poco. In entrambi i casi si è parlato di «Blackface» ovvero dello stile di make up usato nel XIX secolo per gli attori caucasici che a teatro interpretavano personaggi di colore. In effetti i tratti somatici negroidi (usiamo la parola solo come termine scientifico) tipo labbra molto pronunciate e pelle scurissima, venivano accentuati a bella posta. E forse erano anche una prova di razzismo come far dire «si buana» al nero delle barzellette. Ma che Alessandro Michele sia razzista perché ha fatto per Gucci un pullover a collo alto nero che incornicia le labbra di rosso è ridicolo. Da spanciarsi dalle risate anche l'ipotesi del presunto razzismo della scimmietta coi labbroni che fa parte della collezione di gadget da borsetta chiamata Pradamalia e lanciata dal marchio milanese poco prima di Natale. In entrambi i casi ci sono state delle scuse da parte dei brand, anche pubbliche da parte di Alessandro Michele durante la conferenza stampa post sfilata. A questo punto però vorremmo anche noi delle scuse da Ian Griffiths di Max Mara che ci ha piantati lì come una pelle di fico per rispondere alle domande di una potente giornalista straniera arrivata 12 minuti d'orologio dopo di noi. Bastava dire una cosa della serie «Scusa, aveva appuntamento alle 9,30 ed è arrivata in ritardo, faccio presto».

Che dire poi di Bottega Veneta, marchio italianissimo anche se di proprietà del gruppo francese Kering che ha saltato piè pari il passaggio finale nel settore della stampa italiana impedendoci di fatto la visione completa della collezione e il video da postare sui nostri poveri social. Stendiamo poi un pietoso velo sulle condizioni di lavoro proibitive per tutti a causa di questa insensata contrazione dei tempi. Per paura di non avere abbastanza modelle c'è chi opziona 300 donne un giorno prima dello show così gli altri non riescono a fare i cosiddetti fitting. Le top cominciano già oggi a scarseggiare anche se Parigi inizia alle 20 di lunedì 25.

E se tirassimo fuori un po' di orgoglio italiano? Togliete la pubblicità ai loro giornali, dite ogni tanto dei no, non lasciamoci trattare male anche se siamo un popolo di sarti e di cuochi per cui ci tocca esser gentili anche con i cafoni. Siamo il Paese più bello del mondo, facciamo una moda meravigliosa, abbiamo un sacco di difetti, come negarlo, ma la nostra internazionalità è cominciata in epoca romana.

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