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A Istanbul c'è solo Erdogan: l'Europa non è più di moda

La metropoli più occidentale del Paese è tappezzata di manifesti del leader islamico che vuol cancellare il laicismo e guarda a Oriente

A Istanbul c'è solo Erdogan: l'Europa non è più di moda

All'aeroporto di Atatürk megamanifesti elettorali riempiono i terminal, sulle fiancate di bus e taxi per il centro sempre lo stesso volto e sui traghetti che attraversano il Bosforo dei volontari distribuiscono volantini. Lungo le antiche mura del palazzo reale, poi, vi sono circa tre chilometri di cartelloni e un solo nome: Erdogan. Oggi si vota per le presidenziali e a Istanbul, la città più caratteristica del Paese, la campagna elettorale si mescola ai colori, ai suoni e agli odori di Levante. Dal quartiere europeo di Beyoglu al dipartimento asiatico di Kadiköy, per le vie della metropoli il presidente ha messo in atto una macchina pubblicitaria senza precedenti, sfacciatamente a spese dello Stato. Persino nel ghetto turistico di Sultanhamet, ad ogni angolo il sorriso del candidato viene sbattuto in faccia ai milioni di visitatori che affollano l'antica Costantinopoli.

A Istanbul è semplice rendersi conto di come si concluderanno queste elezioni: l'impatto mediatico che ha l'attuale premier è quasi assoluto rispetto ai due avversari del partito laico e di quello curdo. «Vincerà il Grande Uomo», dice un edicolante sfogliando un giornale vicino al tradizionale Gran Bazar. Lungo i caddesi i residenti conversano spesso di politica e del primo ministro tra un tè turco e un narghilè, e non serve conoscere la lingua per capirlo. Sui quotidiani locali esposti, poi, i sondaggi sono inequivocabili: tutte le tredici agenzie incaricate di raccogliere le previsioni danno il sultano in vantaggio, diverse lo danno addirittura sopra il 50%. Se così fosse, Erdogan avrebbe un potere assoluto, costruito su misura per sé. E né le accuse di corruzione e di autoritarismo mosse al leader in carica dal 2002 né la repressione della rivolta dei giovani di Gezi Park lo scorso anno sembrano aver inciso sulla maggioranza degli elettori.

L'Europa, intanto, osserva da lontano gli sviluppi per la sua «campagna acquisti». L'assetto politico del Paese si intreccia infatti con l'annoso caso dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, come spiega in un afoso pomeriggio Haluk, infoman (un ufficio informazioni ambulante del Comune) cinquantenne che ha vissuto in 18 Paesi e conosce 4 lingue: «Metà dei turchi sono assuefatti da Erdogan, qualsiasi cosa declama va bene per tutti. Lui vuole entrare nell'Ue, ma alle sue condizioni, con repressione e un finto Stato laico. Ai turchi non interessa granché, lasciano decidere al premier». Un altro spunto in terra turca lo offrono i membri di un circolo di intellettuali naturalizzati che vivono da anni nella «seconda Roma». Hanno la loro sede in un suggestivo angolo di pietra che sorge su una piccola collina nella città vecchia. Sono noti in città per la loro forte influenza culturale tra i laici e sostengono che si debba fare un referendum per stabilire l'ingresso in Europa. «Sarebbe un plebiscito di “no”», confida uno dei soci del sodalizio. Tesi opposta a quella del giornalista e scrittore Mehmet Ali Birand, il quale sostiene che "diventare parte dell'Europa è un sogno per la Turchia, ma contro si sono schierati Germania e Francia, preoccupati che una nazione di 71 milioni di persone, per la maggior parte musulmani e relativamente poveri, possa entrare a far parte a pieno titolo del mercato europeo». E perfino la nuova generazione dell'area di piazza Taksim, quella culturalmente più europea riguardo i diritti civili e le Istituzioni democratiche, che si è schierata in massa contro il premier, non sembra entusiasta dell'europizzazione geografica del proprio Paese.

A Istiklal, la Rambla turca, in piena zona ovest, quasi scompaiono le donne col burqa, gli abiti si fanno più occidentali e i gesti più disinvolti, passeggiano centinaia di giovani. Qui incontriamo Sena, giovane studentessa che ha partecipato alle proteste di piazza Taksim nel 2013: «Non credo che la Turchia possa mai essere pienamente europea. Le tradizioni, la cultura e la religione sono troppo diversi. E in ogni caso - continua - credo che l'Ue sia soltanto un'utopia fallita». Ancora più duro è Tunc, studente 24enne che incontriamo poco dopo: «Più che una fittizia partecipazione ad un'Unione che non c'è dovremmo insistere nella conquista dei diritti civili». Insomma, pare che a volere il Paese in Europa siano veramente in pochi e solo nei palazzi del potere. Ma ai poli ci sono da una parte i leader europei che storcono il naso e dall'altra, tra le strade (turistiche e affollate o strette e povere che siano), commercianti, pescatori, artigiani, studenti, insegnanti ed intellettuali che vogliono continuare a vivere nella «terra di mezzo». In fondo è da millenni che la Turchia, con Istanbul in testa, è eterna terra di confine in bilico tra Occidente e Oriente. Un tempo culturalmente strapazzata tra Costantinopoli e Bisanzio, poi divisa religiosamente tra Islam e Ortodossia o Stato laico ed ora geograficamente contesa tra Europa e Asia.

«Forse ci vorranno altri 20 anni per vedere la Turchia nell'Unione Europea, forse», ci scherza su Haluk.

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