Il Moro, ritratto di un italiano vero

Tenace, ambizioso, realista, cinico: la storia dell’uomo che fece di Milano la nuova Atene

Il Moro, ritratto di un italiano vero

Lo dicevano «il Moro» per la chioma corvina, il colorito olivastro, gli occhi puntuti e cupi, ma il ritratto del miniaturista Ambrogio de Predis dà ragione solo della nera capigliatura. Nella sua biografia Ludovico il Moro, Mariana Frigeni Careddu definisce il settimo duca (il computo è di Pietro Verri, Storia di Milano, una delle fonti privilegiate del libro) un «arcitaliano»: compatriota dei Cola di Rienzo, Cesare Borgia, Cagliostro, Casanova, Garibaldi, D’Annunzio, Mussolini (la lista è dell’autrice).
L’italianità ad alta potenza fu, nel personaggio, il suo avventuroso mix di ingegno, tenacia, ambizione, realismo con robuste derive al cinismo, propensione ad arrischiare la partita politica su scacchiere diverse e contraddittorie, con una buona dose di quello stellone che può portare le italiche sorti a toccare vertici in ogni campo, mondiali di calcio compresi, ma include il vizio di eclissarsi in repentine e umilianti cadute. La capacità di farsi pietra di scandalo, di dividere, di inasprire il contrasto dei giudizi è prerogativa dei potenti d’Italia. E Ludovico il Moro non fu certo, in questo, un fanalino di coda. «Ha una prodigiosa capacità accentratrice» scrive di lui Giacomo Trotti, ambasciatore ferrarese, «unita a un’incredibile padronanza degli ingranaggi dello stato, e a una memoria di ferro. La sua giornata ne vale dodici». «Ha il dono dell’ironia» osserva il Gherardi, nunzio pontificio alla corte di Milano «e anche se non arriva agli eccessi di Maometto il Conquistatore, che pugnalava coloro che inneggiavano al suo nome, il duca sa guardarsi dai pericoli del servilismo cortigiano».
Tutti erano d’accordo sul fatto che, nuovo Pericle, il Moro aveva fatto assurgere Milano ad Atene d’Italia, in sfida da una parte con la Firenze medicea per mecenatismo d’arte e di cultura, e dall’altra con la nemica Venezia per i forzieri di monete d’oro che ingombravano le sale del castello milanese. I critici mugugnavano sul conflitto d’interesse, dato che lo Sforza non distingueva fra patrimonio pubblico e conto in banca personale. I teorici della politica, Machiavelli e Guicciardini, lo crocifissero: con il suo egoismo miope, aprì la pista allo straniero (Carlo VIII, re di Francia), inaugurando i secoli del servaggio che avrebbero strangolato la penisola, fino al riscatto risorgimentale. Ma altri osservarono che sul campo di battaglia di Fornovo, 1495, bastò una manovra fallita del Gonzaga, capitano della lega dei principi italiani (tra cui lo Sforza) e quindici minuti di sbando perché l’armata francese potesse sfilarsi dall’Italia, divenuta per l’occupante un malfido pantano: una vittoria avrebbe forse cambiato la fortuna dello Stivale, e consegnato al Moro il destino di unificatore nazionale.
La storiografia moderna smorza i toni. Lo Sforza fu un principe del Rinascimento, superbo nel telaio diplomatico, maestro nel dosare i pesi di leghe e di alleanze: difficile parlare di mire e ideali oltre le nebbie, le terre d’oro, le acque meravigliosamente disciplinate della padania. Leggendo le gesta e le intraprese dello Sforza in queste pagine svelte e dense della Frigeni Careddu, emerge una sua fisionomia di «arcimilanese». Per nonno un self-made man, quel Muzio Attendolo, romagnolo, apprendista calzolaio che fece fortuna come condottiero. Una dinastia di imprenditori della terra (riso, seta) e del commercio.

Per parte sua, del Moro, un’efficienza e un’organizzazione strabilianti: con un decreto impose ai magazzinieri di non consegnare una torcia nuova, se non a fronte del mozzicone di quella consumata. Però non badava a spese per ingaggiare il meglio: Bramante e Leonardo. E con lui, mezzo millennio prima di Montenapoleone, per dire moda, oro, argento, perle e broccati, si diceva già «veste come un milanese».

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