Ci sono giorni in cui viene spontaneo chiedersi che cosa siamo diventati, o che cosa stiamo diventando. È uno di quei giorni. Basta vedere come televisioni e giornali, compreso il nostro, hanno trattato la morte a Indianapolis di un pilota-bambino, 13 anni sbriciolati in moto contro il muro: poco e male, tanto per non avere il buco. Per dire «l'avevamo», per salvare la forma e la reputazione. Ma passione e compassione, commozione e pena, zero. Il timore è che la categoria abbia affrontato l'argomento a testa bassa, oppressa dagli spazi angusti, finendo per valutare nel modo più orrendo: in fondo non è una gara del MotoGp, non c'entra con Valentino e Stoner, praticamente è una notizia minore.
Più che minore, la notizia è minorenne. Alzi la mano chi, fuori dall'ambiente motoristico, sa che bambini di 13 anni corrono a Indianapolis prima dei grandi. Certo ci spiegheranno i tecnici che sono gare di contorno, puro divertimento, nessuna pretesa. Spiegheranno, ma senza convincere nessuno. Né madre, né padre. Né nonno, né zia. Un bambino di 13 anni che muore su un circuito, in questo caso sul circuito più famoso del mondo, nel vero e proprio santuario dell'altissima velocità, resta comunque avvenimento spaventoso. E anche un po' indecente, se ancora è possibile ragionare in termini puramente umani. Perché sarà pur vero che ormai lo sport svezza presto, che lo sport pretende e misura sempre prima, ma continua a esistere un limite superiore: morire a 13 anni in una gara di velocità, per quanto divertente, resta allucinante.
Benché precocioni, i 13enni solitamente vanno a sbattere correndo il gran premio della playstation, o caso mai si sbucciano le ginocchia cadendo dalla mountain-bike. Questa è una cosa enormemente più grande, più assurda, più mostruosa. E in ogni caso sarebbe saggio e salutare ragionarci sopra. Non dico di piangerci, perché ormai le lacrime della coscienza popolare sgorgano soltanto quando Belen lascia Corona o Al Bano lascia l’«Isola». Ma quanto meno fermarci un attimo per dare il giusto peso. Invece, poche righe ben nascoste. Per il povero Peter, che inseguiva il sogno dei grandi in una competizione piccola, prima dei Pedrosa e dei Lorenzo, per questo martire in erba del brivido assoluto non c'è spazio, non c'è tempo. E che sarà mai, non era il MotoGp.
Se non avessimo ormai una sensibilità deforme, potremmo eventualmente chiederci: è più terribile che in pista muoia un pilota professionista o un bambino di 13 anni? La risposta vera sarebbe che risulta molto stupido stilare la classifica della pietà. Ma comunque, dovendo fare una classifica, mi pare che la morte di un bambino a Indianapolis sia più choccante della morte di un pilota adulto. Qui la regola e la logica sembrano invece ribaltate: per un Valentino che scivola si montano pagine e servizi di telegiornale, per il pilota-bambino che si sfracella c'è l'umiliante offesa di una breve. È normale sia così, è pacifico sia così, tutti fanno così: Valentino e Stoner interessano al mondo intero, il pilota-bambino non lo conosce nessuno. Se però riuscissimo una volta ad alzare la testa dalla consuetudine, dovremmo porci il fatidico dilemma: è giusto sia così?
Come mai, tanto per fare un parallelo inevitabilmente macabro, quando lungo una strada, o su una spiaggia, o in fondo a un dirupo, muore un bambino, la cronaca riserva molto più clamore? Giustamente, si può dire che la morte di un innocente, a quell’età, commuova e addolori in modo più profondo. Chiedo: perché questo slancio di pietà e di tenerezza, questa equa elargizione del nostro dolore, non vale a Indianapolis?
E poi c’è dell'altro. Una delle cose più tristi che si sentono dire in situazioni simili, con il grande spettacolo funestato dal fastidioso accidente, è il famoso «the show must go on». E come no: lo spettacolo è talmente importante, che bisogna sgomberare subito il palcoscenico, liberando il caloroso pubblico dai pensieri più tristi e più cupi. The show must go on, pronti via e vediamo piuttosto se Valentino ha indovinato le gomme. Tuttalpiù, alle quattro mammole che storcono il naso si può sempre fornire con ciglio umido la suprema spiegazione: «Corriamo perché Peter avrebbe voluto così». Nel rispetto di Peter, si rimuove la carcassa di Peter. Da Indianapolis, dai giornali, dalle televisioni. Dal nostro sentire più intimo.
Noi giornalisti però siamo i primi a doverci porre qualche domanda. E magari a trovare pure qualche risposta. Troppo facile rispondere trafelati che «non c'è spazio». Per certe notizie, lo spazio va trovato. Lo show può fermarsi, qualche volta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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