Anche se era da tempo inattivo per via dell’età avanzata (88 anni compiuti il 18 febbraio scorso), la scomparsa di Luigi Squarzina lascia un irrimediabile vuoto nella scena del nostro dopoguerra, da tempo orfana di quei suoi illustri coetanei che si chiamavano Costa, Visconti e Strehler. Tutti - a eccezione del cattolico Costa - uomini politicamente impegnati a sinistra che Squarzina, grande regista e intellettuale scomodo, considerava sì colleghi di valore, senza tuttavia nascondersi che, a differenza di lui, non si erano mai provati in quell’autentica scrittura drammaturgica che, al di là del valore delle sue regie, gli aveva conferito un posto a parte e una singolare posizione di prestigio. Basterebbero infatti titoli come Tre quarti di luna, che nel ’53 laureò il giovane Gassman, da lui lanciato clamorosamente l’anno precedente in un Amleto che fece epoca, o Romagnola, che, al di là di una ricostruzione storica di parte, ebbe nel ’60 il merito di porre l’accento sui fasti e i nefasti della Resistenza, a collocare Squarzina nell’arena ristretta di quegli intellettuali che considerarono il teatro più una scuola di vita che una maniera di esprimersi. Artista schivo e solitario più di quanto si creda, nonostante la sua fortunatissima carriera di direttore princeps di due teatri stabili di grande prestigio come Genova e poi Roma, il regista, toscano di nascita ma romagnolo di stirpe, va oggi ricordato come il più geniale artefice, secondo solo a Giorgio Strehler, della rinascita critica di Goldoni in Italia. Che negli anni gloriosi in cui condivise con Chiesa la direzione di Genova si concretò nella bellissima trilogia formata da Una delle ultime sere di Carnovale (trionfalmente esportata in tutta Europa), I Rusteghi e La casa nova. Poiché fu proprio lui a togliere dal chiuso stantio delle biblioteche e dall’aria asfittica di certo Papà Goldoni duro a morire (che a lungo mortificò il grande autore nelle messinscene casalinghe di Baseggio) quei tre immortali capolavori. Riproponendo il primo di loro, che non a caso contiene il memorabile addio a Venezia del poeta, esule a Parigi dopo l’andata in scena di Una delle ultime sere di Carnovale, all’attenzione di studiosi di mezzo mondo. Anche se sarebbe assurdo a questo punto dimenticare, proprio il giorno in cui si è accomiatato dalla scena dei vivi, uno spettacolo volutamente provocatorio come Le Baccanti che, nel ’68, sollevò isolati entusiasmi e sciocchi cori di protesta quando il pubblico si accorse che il coro scatenato da Dioniso contro Penteo legittimo sovrano di Tebe era formato non dalle solite prefiche lugubri e vocianti secondo tradizione, ma da uno stuolo di hippies. I quali, pur scandendo i versi di Euripide, erano diventati i ragazzi che, in quel periodo, predicavano in Hair la rivoluzione dei Figli dei Fiori. Certo, il profilo di Squarzina non si esaurisce qui, dato che il Nostro sia pur tardivamente (ma non fu colpa sua) varò, dopo un precedente che ebbe scarsa fortuna, la prima grande edizione italiana della brechtiana Madre Coraggio. Senza parlare dell’inestimabile valore dei suoi famosi Pirandello degli anni Sessanta, da Ciascuno a suo modo con la Alfonsi e Turi Ferro a quell’edizione di Questa sera si recita a soggetto che ancor oggi si ricorda per la maestria dell’impianto e la strepitosa suggestione emotiva di due interpreti come Lucilla Morlacchi e Lina Volonghi.
Entrambe attrici laureate di quella straordinaria schiera di attori, cui si aggiunsero fin dagli inizi Eros Pagni e Alberto Lionello, che il Teatro di Genova, unico tra gli enti pubblici della penisola, si accaparrava ogni stagione con contratti a lungo termine al lodevole fine di costituire un’autentica compagnia stabile destinata a durare nel tempo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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