«Una mossa storica E prevedo nuove intese con Tata o Peugeot»

Una mossa storica, professore? Chiediamo a Valerio Castronovo, economista e storico, torinese, autore dieci anni fa di un memorabile volume sui cent’anni della Fiat edito da Rizzoli.
«Sì, storica, non c'è altro termine - risponde -. Va a trapiantare negli Stati Uniti il proprio modello culturale, quell’auto di piccola cilindrata che è la sua forza: un segmento nel quale è stata pioniere nel mondo. E diventa azionista di maggioranza di una delle tre big di Detroit, anche se la più malconcia».
In passato ci sono stati altri tentativi, sempre negli Usa...
«È il terzo significativo. Nell’84-85 ci furono prove di fusione con Ford Europe, che voleva preludere, alla lunga, a un ingresso della Fiat nel capitale della Casa madre. La famiglia Ford allora aveva il 4% del capitale, ma la maggioranza dei diritti di voto, e mandò tutto in fumo. Poi, è storia recente, fu tentato un accordo globale con la General Motors, che per fortuna è stato disdetto in tempo».
Oggi è una grande operazione che va a segno.
«Chapeau a Sergio Marchionne! E la vedo premessa per altri sviluppi».
Quali?
«Un’intesa con il gruppo Peugeot-Citroën, con il quale da tre decenni ci sono accordi nei veicoli commerciali. Oppure con il gruppo Tata. L’India è un mercato emergente. Pensi al Brasile, che per la Fiat è molto redditizio e giova alla sua immagine internazionale. Prima che ci arrivasse, il mercato era in mano solo alle grandi multinazionali».
Pensa che ci possa essere ancora qualche intoppo?
«Non ne vedo. Il piano Bush da 14 miliardi di aiuti per l’auto, varato d’intesa con Obama, è vincolato a piani industriali credibili; solo se Chrysler saprà illustrare un futuro convincente avrà la parte del denaro che le spetta, perché non è un assegno in bianco. La Fiat è perfetta per proporre un’integrazione, e sia Chrysler che i sindacati le sono ampiamente favorevoli».
Perché perfetta?
«Chrysler ha una cultura industriale di grosse cilindrate e di Suv. La Fiat la può rilanciare con le piccole cilindrate. Non so come avrebbero potuto ideare un piano da soli in così poco tempo e senza la vocazione giusta. E poi, me lo lasci dire, anche se può sembrare retorico…».
Prego.
«È significativo che tutto questo avvenga nel giorno di insediamento del 44° presidente degli Stati Uniti. Ne è sicuramente contento anche lui. E poi in Italia ci lamentiamo. Questa è un'operazione di economia reale, d'industria, non di banche e di carta. È il segno dell'iniziativa della grande impresa italiana».
La crisi ha anche aiutato, però.
«Sì, ma la crisi, come si vede, può essere un’opportunità. Ci sono anche tante medie imprese che, più silenziosamente, si muovono all’estero con grandi successi che inorgogliscono l’Italia. E pensi che il mercato è ormai globale, ci si confronta su scenari più ampi del passato. La Fiat, per esempio, in Italia e in Europa ha tenuto meglio degli altri, e questo è sintomo delle sue capacità».
Ma gli americani si convertiranno alle piccole cilindrate?
«Capiranno che sono convenienti. È vero che la benzina è diminuita, ma il petrolio, finita la recessione, schizzerà di nuovo. Poi, anche nelle città Usa il traffico è congestionato. Con un presidente che parla “verde” il risparmio energetico diventerà un obiettivo diffuso. Si dirà: non è più il secolo degli Stati Uniti. È vero, ma contano ancora per il 20% del Pil mondiale, quando la Cina si ferma al 7-8%».
Quindi la Fiat fa bene a puntare Oltreatlantico.
«L'Europa è ormai troppo piccola, ed è già presidiata dai grandi produttori nazionali. Marchionne ha già detto che per sfidare il mercato globale è necessario produrre oltre 5 milioni di vetture all'anno. Questo è il primo passo, mi auguro che ce ne saranno altri».
Salirà al 51% di Chrysler?
«Non ne ho dubbi. E poi farà altre joint venture».
Vede rischi in tutto questo?
«No. Torino non sborsa un dollaro e fornisce capacità tecniche che possiede già. La Fiat è sempre stata forte nei motori, nei componenti, nelle trasmissioni, nelle piattaforme. Quando trattò per Ford Europe il suo vantaggio si chiamava Fire, un motore di nuova concezione che le avrebbe dato forza nell'alleanza».
Niente rischi, allora?
«No. Ha già a disposizione cultura e strumenti per favorire la conversione della Chrysler alle piccole cilindrate».
Il rapporto della Fiat con gli Usa ha comunque radici lontane…
«Giovanni Agnelli senior andò per la prima volta nel 1906 a Detroit per conoscere Henry Ford, e poi vi tornò per studiare il modello T, che motorizzò gli Stati Uniti. Negli anni Trenta fece un viaggio per vedere come si stava affrontando la crisi. Il Lingotto, con la catena di montaggio verticale, dal basso in alto, fu costruito negli anni Venti su modello statunitense. Poi, nello Stato di New York, a Poughkeepsie, la Fiat impiantò in quegli stessi anni una fabbrica, dove produsse per qualche tempo vetture di lusso; ma l’aveva ideata per la Topolino. La storia, in fondo, si ripete».
Vede ancora gli Agnelli nel futuro della Fiat?
«Sì, è difficile pensare a una Fiat public company. E poi c'è questo modello del tandem che si ripete, prima il senatore con Guido Fornaca, l’ideatore del Lingotto, poi con Valletta che continuò il binomio con l’Avvocato; questi poi ebbe al suo fianco uomini come Romiti e Ghidella.

I nomi storici sono questi, gli altri sono passaggi; questi sono stati amministratori delegati per anni, alla vecchia maniera. Questo tandem famiglia-manager continuerà: oggi è il tempo del giovane Elkann con Marchionne. Guardi che cosa sono stati in grado di fare».

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