Rimorchiatore Jelyana (Golfo della Sirte)Lultima spiaggia di questa guerra sono onde del Golfo della Sirte. Qui la Nato blocca e rimanda indietro le navi cariche di armi, medicinali e cibo dirette verso Misurata, la città martire assediata da 40 giorni. Qui naufragano le buone intenzioni di chi vorrebbe salvare i civili e le velleità di chi sogna di far vincere i ribelli. Qui la Nato si spara sui piedi. Per capirlo basta imbarcarsi sulle navi in partenza per Misurata dal porto di Bengasi. Noi ci proviamo lunedì sera. Siamo in lista dattesa da cinque giorni. Ogni sera ci presentiamo da Alì, il capo dei pescatori di Bengasi trasformatosi in grande coordinatore dei soccorsi al porto assediato. Ogni sera Alì scuote la testa. «Mare grosso e troppo vento» ripete quel barbone avvolto nella khefia gialla. Ma lunedì dalla sciarpa spunta un sorriso. «Ialla shebab, andiamo ragazzi cè mare buono».
In un attimo dal suo magazzino escono una trentina di casse di munizioni, dieci lanciarazzi anticarro, due mortai, due mitragliatrici antiaeree da 14, 5 millimetri, qualche chilo di esplosivo e varie mine anticarro. In pochi minuti tutto quel ben di Allah ancora puzzolente di pesce riempie un camion, corre verso il porto. Ad aspettarci cè il Jelyana, un rimorchiatore da 26 metri. Sul molo una folla di civili entusiasti partecipa alle operazioni di carico. Una decina di boy scout scarica disinfettanti, bendaggi, fleboclisi e casse di antibiotici. Un terzo gruppo riempie la stiva di pasta e riso. Alì nel frattempo cerca posto per il suo carico prezioso. «Sono armi regolari, non sono di contrabbando, le abbiamo prese nei depositi di Gheddafi, se anche le trovano non possono farci niente».
Tutto in effetti avviene alla luce del sole. Mentre accende i motori il comandante Mustafa Ibrahim chiede il passaporto di ogni passeggero straniero e trasmette le generalità alla capitaneria di porto. «Ora le passano alla Nato così sanno che arriviamo e stiamo tranquilli» spiega fiducioso. A bordo oltre a giornalisti ed equipaggio ci sono 12 volontari pronti a tutto pur di aiutare la città assediata. «Vado a lavorare allospedale e magari anche a combattere» racconta Tarek, un infermiere pentitosi di esser scappato da Misurata con moglie e figli. «Vado a combattere, Gheddafi ha messo in prigione e ucciso i miei amici» sostiene Alì Youssuf Hamza, uno studente 24enne reduce dal fronte. «Non ne posso più di star a piangere davanti alla tv mentre Gheddafi ci massacra, voglio partecipare anchio alla jihad» spiega Hajmar Maftur.
Alle 21.30 il Jelyana prende il largo salutato da una salva di kalashnikov. Nella cabina di comando capitan Mustafa tira una riga tra Bengasi e Misurata dallaltra parte del golfo della Sirte. «Lattraversiamo dritto dritto, son 230 miglia, se tutto va bene e non cè mare in 24 ore siamo in porto». Alle 4 di notte il gracchiare della radio incrina lottimismo degli arditi del Jelyana. «Questa è una comunicazione Nato, siete sui nostri radar, preparatevi allidentificazione».
Allalba la sagoma di una corvetta macchia la coltre vermiglia di un sole appena affiorato dalle onde. A poppa sventola una bandiera rossa con la mezzaluna. Tarek sbianca. «Sono turchi, siamo fregati, ci bloccano, ci prendono le armi, ci rispediscono indietro». Dieci minuti dopo la grande paura è a bordo. Nove incursori turchi salgono con i mitra puntati, perquisiscono giornalisti, equipaggio e volontari. «Dovete scegliere, gli ordini Nato sono chiari: per proseguire dovete darci le armi» intima il comandante turco. E dalla radio una voce inglese con accento turco reitera il consiglio: «Vi siamo vicini nel nome della solidarietà musulmana, ma la risoluzione Onu ci obbliga ad agire così. Vi scortiamo verso Bengasi, vi auguriamo buon viaggio e buona fortuna».
«Ipocriti» sussurra Tarek mentre la capitaneria di porto di Bengasi informa che altre 3 navi sono state bloccate. «Maledetti, fingono di aiutarci e invece stanno con Gheddafi» impreca Abdul Jala Ali. «La mia famiglia è tutta lì, i miei amici sono morti e questi ci prendono in giro.
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