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"Prima viene la notizia, poi, tutto il resto: la verità dietro al lavoro d'inchiesta"

Nello Trocchia, giornalista d'inchiesta e ospite della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi, racconta di come bisogna muoversi e di come porsi nei confronti del potere

"Prima viene la notizia, poi, tutto il resto: la veirtà dietro al lavoro d'inchiesta"

C’è solo una cosa che è più ostinata dei fatti: il giornalista d’inchiesta che non si accontenta di come ci vengono raccontati. E comincia a fare domande, a scavare, a raccogliere e mettere in fila elementi che portano a una verità differente da quella ufficiale. Una verità, a volte, scomoda e che, se svelata, può dare fastidio a molti. Ma che il vero giornalista è pronto a raccontare fino in fondo, pagandone le conseguenze. Nello Trocchia - scrittore, conduttore tv, giornalista d’inchiesta, attualmente collaboratore di Domani, già inviato di Piazzapulita e tra i super ospiti della masterclass in video giornalismo investigativo di The Newsroom Academy - ci ha spiegato quali sono e perché ne vale, comunque, la pena.

Perché la migliore definizione di giornalismo è nella frase tratta dal film su Giancarlo Siani Fortapàsc: “Gianca’ ‘e notizie so’ rotture ‘e cazz”?

Perché è una frase che riassume benissimo il senso di questo mestiere. Chi fa il giornalista con la scelta di dare la notizia si trova spesso a dare fastidio al potere, cosa che, ovviamente, porta con sé enormi problemi e ostacoli da affrontare. Quella frase, in una sintesi gergale, riesce appieno a restituire fatica, tempo, frustrazione, talvolta sofferenza, talvolta complicazioni che porta con sé questo mestiere, meraviglioso ma molto difficile. E riesce a strappare anche un sorriso. Che nel nostro lavoro non guasta mai. La serietà, lo studio e l’applicazione non devono fare mai dimenticare la capacità di ascolto, e anche di sorriso, rispetto alle storie che raccontiamo e ci portiamo addosso, ma che, per fortuna, a differenza dei nostri interlocutori non viviamo. Questo soprattutto quando interloquiamo con persone senza potere, che non hanno strumenti se non affidarsi alla penna o al microfono del giornalista.

Quindi, le inchieste che scavano dietro alle notizie sono doppie “rotture ‘e cazz”?

Questo è un paese che non ama il giornalismo d’inchiesta. Poi, per me esiste un solo giornalista: quello che si mette dall’altra parte rispetto ai poteri, che non accetta supinamente le verità che vengono restituite dalle fonti ufficiali, quello che mette in dubbio, che discute, che pone domande e non si adagia sulle posizioni del potere. Trovo che sia italiano e anomalo, quando ad ogni cambio di governo si ridefiniscono gli assetti del servizio televisivo pubblico, mettere tra parentesi i partiti di appartenenza dei direttori dei telegiornali o delle reti televisive: questo è la fine del giornalismo e la morte della nostra professione. Noi possiamo avere delle idee, ma il giornalista è chi ha la notizia e la pubblica, senza porsi il problema se darà fastidio alle aree politiche a cui magari può essere più vicino per ideali. Prima viene la notizia, poi, tutto il resto. E tutto il resto non può mai condizionare l’interesse pubblico della notizia.

Nello Trocchia è tra i super ospiti della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi. Scopri il programma e gli altri ospiti della masterclass

Anche quando quel “resto” coincide con chi detiene il potere.

Il giornalismo dissotterra le verità bisunte e sudice che il potere ha voluto restituire, provando a raccontare cos’è accaduto realmente in una cella di un carcere quando c’è stato un pestaggio di Stato, che era stato derubricato come una giornata di illegalità; quello che prova a porre delle domande quando c’è stato un naufragio dove sono morte delle persone; quello che ricostruisce cos’è accaduto o sta accadendo in un territorio, facendo la radiografia delle aziende che, per esempio, vengono coinvolte nella costruzione di un impianto, e se quelle sono protagoniste di scempi ambientali precedenti lo denunciano. Quello che non si accontenta delle verità ufficiali, ma le mette in discussione e verifica se la messa in discussione porta a una verità differente. Questo è il punto vero: il giornalista è chi si oppone al deposito di una verità che può essere comoda per qualcuno, ma che non corrisponde ai fatti.

E, invece, quando si deve fermare?

Io mi fermo quando capisco che una traccia non mi ha portato da nessuna parte. Altrimenti non ci sono altre cose che mi fermano. Uno cambia mestiere, se deve fermarsi. Poi, succede di tutto: arrivano le telefonate, le minacce, le intimidazioni, succede che i boss al telefono pianificano di spaccarti la testa, succede che ti arrivano le querele temerarie da cardinali, magistrati, ministri, sottosegretari, giudici. A me è capitato tutto quello che può succedere. Sono stato aggredito in strada, sono parte civile nei processi per aggressione da parte di clan feroci e spietati…capita. E se non si vuole che capiti, meglio cambiare mestiere.

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Perché ne vale, comunque, la pena?

Non so se ne vale la pena. So solo che ne vale la pena se si stringe un patto con le persone e le storie che racconti. Vale la pena per loro. Vale la pena per quelle madri che ho incontrato sul Gargano e che hanno perso i figli per lupara bianca, vale la pena per le madri che ho incontrato nella Terra dei fuochi, e non c’è una parola in italiano per definire le madri che hanno perso i figli malati di tumore. Per quelli che sono stati cacciati dalle loro case dai Casamonica nell’indifferenza della politica. Per tutte le storie, gli occhi, gli incroci che ho avuto con persone che potere non avevano, ma avevano una storia da raccontare e qualcosa da denunciare. Vale la pena per i detenuti che finalmente hanno creduto nella giustizia e hanno denunciato gli aguzzini che li hanno picchiati. Vale la pena per tutti quelli che, anche se precari e senza reti di protezione, decidono di denunciare questo o quello. Tu ti metti dalla loro parte e fai un racconto di denuncia, interpreti quel senso di giustizia che spesso non può trovare sponda nel codice penale, ma nel buon senso e nell’idea di giustizia che corrisponde all’interesse pubblico. Vale la pena per loro. E per tutti quelli che ancora leggono un giornale e ancora lo comprano.

Vale la pena, certo. Ma è un mestiere che si può imparare o no?

Penso che avere un’interlocuzione con chi fa questo mestiere sul campo sia utile. Poi, ovviamente, la passione non si insegna a scuola e, se non ce l’hai, non ce l’avrai mai. Ma se ce l’hai e non hai gli strumenti per scrivere bene un pezzo, per girare un video, per difenderti dai mille ostacoli, per capire come fare una proposta o un'inchiesta e realizzarla, con la sola passione non vai da nessuna parte. Se hai la passione per questa professione straordinaria, meravigliosa, che è il mestiere della mia vita, devi associarla a delle competenze da acquisire. Il giornalista è un lavoro che purtroppo fanno tanti che dovrebbero fare altro. Siamo circondati da una mediocrità e da un’approssimazione indecenti che ci squalificano agli occhi delle persone. Non tutti possono fare questo mestiere. Per farlo c’è bisogno di sapere, di studiare. Non si fa un’intervista se non si ha sottomano un dossier sul soggetto, sulla persona di cui si sta parlando, perché si rischia di fare una figuraccia, oppure di mettere il microfono in bocca a uno senza sapere cosa chiedergli.

Ogni cosa fatta con studio produce notizie, mentre tutto il resto è solo inchiostro su carta e bla bla bla in televisione.

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