Ogni maledetto giorno accendono il computer, digitano la loro password e cominciano a scrivere il loro «Raf», il Rapporto sull’attività fantasmatica. Nero su bianco umori e impulsi. Fantasie sessuali e pratiche di masturbazione. Vedono i loro dati e poi ne parlano. Con gli altri o con gli psicologi. Perché il primo obiettivo è la fine della negazione. Sono oltre 2mila gli autori di reati sessuali in Italia, il 95 per cento di loro non ammette d’aver stuprato o violentato. Di aver distrutto la vita di una sconosciuta, di un bambino o di un familiare. E invece l’emersione di quella terribile colpa, di quell’orrore inconfessabile è la condizione non per «curare» - cosa spesso impossibile - ma per controllare. Per essere in condizione, una volta fuori dal carcere, di non cadere di nuovo nel demone della violenza.
È su questo che lavorano a Bollate. Nel carcere che sperimenta il primo trattamento intensificato per autori di reati sessuali. Da 4 anni. Sono 150 i detenuti passati dal progetto, 24 quelli attualmente sottoposti alle «terapie», 100 quelli in attesa di esserlo, gli «sfollati» dalle altre carceri in questa casa modello. Firmano un contratto. Superato il periodo di prova inizia il trattamento. Ore di lavoro sulla mente, tutti i giorni, per un anno. Poi fuori il «controllo benevolo», finanziato dal Comune nell’ambito delle politiche contro gli stupri. E sembra che funzioni. La recidiva è al 5 contro la media del 20 o più. Ma non è solo la psicologia, o la psicoterapia. Non sono solo i colloqui e i diari. C’è anche un trattamento farmacologico. Non si tratta di anti-androgeni o inibitori, ma di ansiolitici, stabilizzatori dell’umore, antidepressivi. Per psicosi, attacchi di panico e sindrome dissociative. «La castrazione chimica? - riflette il capo dell’equipe, il criminologo Paolo Giulini - Messa così è un falso problema. Non si può dare la castrazione chimica in pasto all’opinione pubblica. E nella gran parte dei casi non servirebbe. Ma se mi propongono la sperimentazione con farmaci inibitoti dico “perché no?”. Potrebbe integrare il trattamento in certi casi». «Solo un’autorevole opinione - mette i paletti la direttrice del carcere Lucia Castellano - servirebbero regole nuove e protocolli ministeriali». Sono 18 gli specialisti dell’equipe di Giulini: «Anni fa nei convegni prendevamo fischi o riasatine di scherno - ricorda uno di loro - lo scetticismo maggiore era sull’abbattimento dei muri interni al carcere. La subcultura che vuole ghettizzati i “protetti”, i colpevoli di reati sessuali». Oggi gli altri detenuti sono informati del programma. Se non lo accettano possono andarsene, qualcuno lo ha fatto. Se restano devono vivere con loro. Non è facile, neanche per l’equipe, che conta 11 donne. «Un lavoro durissimo - confessa la criminologa Francesca Garbarino - soprattutto all’inizio capita di identificarsi con le vittime, donne ma anche bambini.
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