Nel doppio dei Red Hot più funk che metafisica

Forse una maggior selettività avrebbe giovato a questo doppio album ricco di ventotto canzoni, non tutte indispensabili. E tuttavia intrigante, di là dalle sue soverchianti ambizioni: tra tutte quella - informano le note per la stampa - di «volare nei cieli del suono, tra piani di esistenza che non condividono leggi e condizioni di questa realtà». Un intento mica da niente, che richiama certo rock «spaziale» degli anni ’70 reiterandone l’ipoteticità ma non, vivaddio, la platealità velleitaria e il facile effettismo. Ovvero: la band losangelina chiama in causa la sua anima funk e il suo talento pittorico per dar vita a un’ipotesi di nuova psichedelia, dove l’impazienza dei ritmi, la varietà dei suoni e l’intensità emozionale prevalgono sulla metafisica d’accatto.

Così se fa sorridere l’annuncio di voler raggiungere in musica «un luogo dove il nulla è movimento e movimento /immobilità sono una cosa sola», la musica dei Red Hot Chili Peppers recupera nei fatti la sua dimensione più comunicativa: in quell’intreccio di hip hop, rock, suggestioni etniche, fraseggi agili e rotondi che restituiscono il loro stile a quella sensualità ferina che a parole si afferma di voler superare.

Red Hot Chili Peppers Stadium Arcadium (Warner)

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