Nelle strade di Teheran esplode la rabbia della generazione 09

Li chiamano schieramenti, ma sono due mondi. Da una parte un piccolo mondo antico e desolato di barbette rade, giacche scure e stazzonate, camicie abbottonate al collo e pantaloni ammainati su mocassini senza più forma. È il mondo frugale e devoto, miope ed incarognito di Mahmoud Ahmadinejad. Un trasandato mondo di reduci ed invalidi malmostosi. Riemerge nel 1989 dai veleni e dalle trincee della guerra con l’Irak, si ritrova a far i conti con una gioventù imberbe e turbolenta, indifferente ai guai di padri transitati per galere, rivoluzione e trincee. Il nuovo mondo giovane e irriverente incomincia a farsi beffe di loro nel 1997 votando Mohammad Khatami.
Inizia tutto allora. Con la riscossa delle donne malvelate contro il mondo dei malvestiti, con i primi internet cafè contro Corano e preghiere. Continua nell’estate ’99 con la prima rivolta dell’università di Teheran. Finisce con una maglietta intrisa di sangue sventolata al cielo e le galere piene. Ma non si spegne. Ripara soltanto nel sotterraneo dell’apatia che per dieci anni avvolge e preserva una generazione. In quell’apatia, in quell’humus privato dove ciascuno è libero di non credere, di non collaborare, di rinnegare le rigide norme su vestiario, alcolici e vita sociale si distilla la protesta di oggi. Falchi e ayatollah si trastullano con nucleare e parate di regime preferiscono non vedere quel mondo così diverso che si chiude in casa, si sintonizza sulle televisioni via satellite, canta le canzoni del mondo globalizzato, si entusiasma ai suoi ritmi, sbadiglia davanti alla preghiera del venerdì. Nelle campagne non è così, ma Teheran e dintorni fan 15 milioni su settanta totali. Senza contare Shiraz, Ishfan e tante altre città metropoli.
La cosiddetta «illusione cinese» parte da lì. Per anni il regime ignora i fattorini in motorino e cellulare pronti a recapitare a domicilio gli ultimi film di Hollywood arrivati da Dubai, la wodka travestita da lattine d’aranciata, la pipata d’eroina afghana o il crack turco. Solo internet li spaventa. Ma un regime con l’orgoglio da grande potenza non può permettersi il lusso di chiudersi al mondo. L’internet apparentemente controllato diventa nelle mani di giovani ingegneri e tecnici dell’era digitale una cassaforte da scassinare, da ridistribuire nel silenzio della notte ad amici e figli. Nasce così la generazione 09, una generazione di trentenni diventati il 70 per cento del paese, una generazione di uomini in jeans e maglietta e donne con il piercing sotto il mantello, una generazione pronta a appassionarsi per un vecchio primo ministro come Moussavi di cui sanno solo che era onesto, è stato scaricato e, alla fine, pure gabbato. Nasce così una generazione arrabbiata di trentenni senza futuro, una generazione di spiantati con fidanzata al fianco e laurea in tasca. Una generazione di fidanzati a vita condannati a non sposarsi per la mancanza di casa e di lavoro.
Nel loro immaginario i grandi nemici sono Ahmadinajad e quanti con lui hanno saccheggiato le ricchezze petrolifere. Quelli che ne hanno devoluto le gocce ai poveri delle campagne lontane, ma hanno ignorato impiegati, ingegneri, piccoli imprenditori tutta quell’imponente galassia diventata forza emergente, volto, energia vibrante delle grandi città. E così quei due mondi allontanatisi uno dall’altro per 12 anni si ritrovano al duello finale.
Alle manifestazioni di Ahamdinejad ci sono sempre loro, i quarantenni e i cinquantenni frustrati legati ad una purezza rivoluzionaria tramontata già con Khomeini. A difenderli i teppisti in moto, casco e randello reclutati nelle scuole religiose dove le rette sono un omaggio del regime. Da una parte gli slogan purulenti della rivoluzione incanutita. Dall’altra lo squittio irriverente di twitter, dei telefonini sintonizzati con il resto del pianeta, l’urlo di un mondo pronto a tutto per non ricadere nel silenzio dell’apatia.

Ma mentre da Washington il dipartimento di Stato chiede ai gestori di twitter di facilitare gli accessi criptati e consentire alla generazione 09 di resistere ancora a Teheran la parola resa sembra ancora lontana. «Siamo spaventati e preoccupati - scriveva ieri sera uno delle decine di anonymous iranian della capitale - ma continuiamo a combattere perchè sappiamo che non potranno bastonarci e ucciderci tutti».

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