«The New World»: solo le immagini salvano dalla noia

Maurizio Cabona

Mare d'erba, placidi fiumi, freschi ruscelli, alte fronde innervano The New World («Il nuovo mondo»), diretto da Terrence Malick, che ne aveva scritto la sceneggiatura un quarto di secolo fa, ai tempi in cui coi Giorni del cielo vinceva il premio per la regia al Festival di Cannes.
Dallo scontro fra natura e cultura (si fa per dire), dovrebbe risaltare il senso panico dell’America pellerossa, umiliata dagli inglesi di re Giacomo, sbarcati in Virginia agli inizi del XVII secolo; e dovrebbe scaturire il pathos naturistico del regista. Ma lo spettatore, che non sia cultore di questo Tarkovski texano, di questo Heidegger della macchina da presa, sarà facilmente estenuato dalle due ore e mezzo di proiezione (quasi tre nel film precedente, La sottile linea rossa, Orso d'oro al Festival di Berlino). E pensare che, con un’ora di meno, Malick avrebbe potuto dire egualmente ciò che voleva e ottenere che, alla fine del film, ci fosse qualcuno ancora sveglio.
The New World ricalca spesso nella trama la seconda parte de L’ammuntinamento del Bounty di Milestone. Ma Malick non cerca emozioni, cerca sensazioni. Ora è difficile applicare un’estetica antonioniana a uno sfondo forestale e a un contesto proto-coloniale. Resta comunque la suggestione delle immagini, quasi tutte «esterni»; resta la serenità nel descrivere il conflitto, alla maniera inglese e meno che mai hollywoodiana.
Come La sottile linea rossa, anche The New World parte maestoso e arriva prolisso. Una buona regia non dovrebbe ricorrere tanto a voci fuori campo: è dalle espressioni degli interpreti che dovrebbero scaturire i pensieri dei personaggi. Qui invece Colin Farrell, ovvero l’avventuriero John Smith, deve adottare la stessa tecnica imposta da Malick a Jim Caviezel nella Sottile linea rossa: sguardo smarrito, poche parole, lunghi silenzi. Ecco il profilo di un piccolo conquistatore, solo un po’ più bello degli altri.
Quest’ultimo dettaglio comunque fa la differenza, perché è di lui che s’innamora a prima vista la bambina (dodici anni nella realtà storica, di più nell’incarnazione di Q’Orianka Kilcher), figlia del re della tribù pellerossa degli Algonquin. Mentre il suo popolo ha la sfortuna di vedere i nuovi arrivati insediarsi nelle proprie terre, decisi a non partire più, lei proprio questo spera. Non la spinge la vocazione al presunto crogiolo di razze che diverrà poi il continente americano, ma alla fine è lei, con le sue ingenuità, a favorire il destino amaro - schiavitù ed estinzione - del suo popolo. Un destino perseguito pervicacemente, fino a sposare non l’amato, ma una sorta di ricco alter ego (Christian Bale), che la travestirà da inglese, la «civilizzerà» e la porterà a Londra per presentarla al re, come fosse una scimmietta ammaestrata. A dieci anni dall’incontro con la «civiltà» e a poco più di venti di età, lei morirà nella traversata di ritorno, stroncata da una malattia che, per un’inglese di ceppo, sarebbe stata innocua.
La vicenda di Pocahontas - però mai la ragazza viene chiamata così nel film - esce dai confini del cartone animato disneyano e ritrova tutto il castigo dello sradicamento. Il re-padre la rinnega, un altro re la vende agli inglesi, che non la uccidono, ma la trasformano nella caricatura di una di loro.

E qui sta il meglio del film: sorta di Briseide pellerossa, la ragazzina Algonquin trova in Malick il suo tardivo, affettuoso Omero.

THE NEW WORLD di Terrence Malick (Usa, 2005), con Colin Farrell, Q'Orianka Kilcher, 150 minuti

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