New York senza baseball: perde due stadi e il mito

Sotto le ruspe lo Yankee stadium e lo Shea proprio mentre la Grande Mela resta fuori dai playoff della stagione. E perde quasi 200 milioni di dollari

New York senza baseball: 
perde due stadi e il mito

Forse, chissà, è stata una sorta di auto-punizione. O almeno piace pensare che sia così. Che la favola sia finita nel momento più buio della storia dello sport newyorkese. Perché nella Grande Mela non capitava dal ’92 di vedere entrambe le squadre di baseball fuori dai playoff. E quando accade è un lutto. Perché New York orfana del diamante è come una donna che abbia perso il suo fascino. E’ un cuore che non batte più, un’anima volata via. E forse piace immaginare che, proprio per questo, New York abbia voluto usare il cilicio e calare la scure sullo Yankee stadium, l’urlo del Bronx. E, contemporaneamente, anche sullo Shea, il tempio dei Queens, che ha guidato centinaia di piloti verso le rampe d’atterraggio del vicino La Guardia.

E’ finita un’epoca, insomma. E la doppia eliminazione di Yankees e Mets è lì a ricordarla. Ora quell’epoca è finita davvero e quegli stadi nei quali New York aveva visto di tutto vengono rasi al suolo. Proprio mentre l’odiata Boston elimina Los Angeles. Le calzette rosse stanno chiudendo le porte in faccia agli angeli. Eppure, quella sera, era cominciata proprio da lì l’avventura degli Yankees: un’eterna sfida contro i nemici di sempre. Era il 18 aprile del ’23, primo atto di una partita infinita contro i Red sox ai quali gli Yankees inflissero una sconfitta bruciante. La prima di tante, tantissime. C’erano i mitici fuori campo di Babe Ruth, il bambino d’oro che cullò New York sfrecciando tra le basi come un siluro e mandando in tilt il pallottoliere segnapunti. C’era il mitico numero 5 stampato sulle spalle di Joe Di Maggio, busto e gambe piantate lì e sguardo verso l’orizzonte infinito. L’orizzonte di battuta, l’orizzonte del sogno americano. L’orizzonte del baseball, cioè la conquista del territorio, come tutti gli sport in voga quaggiù. Era l’uomo che si fidanzò con Marylin, era il volto dell’emigrante che trovò sul diamante il riscatto da una vita sull’orlo del precipizio nell’anonimato di miseria e povertà. Era un simbolo, Joe Di Maggio. Il “Bambino” finì nel Guinness dei primati (26 world series e 60 fuoricampo in una sola stagione), Di Maggio finì nella memoria di tutti e nelle canzoni di Simon and Garfunkel, quando Dustin Hoffman-Benjamin sogna Mrs Robinson e pensa a quel campione col 5 sulle spalle e le righe bianche e blu. Lo Yankee stadium è la storia. Pardon, era la storia. Dello sport come del costume, perfino della religione. Era la dodicesima ripresa quando Max Schmeling mise fuori combattimento il bombardiere nero, Joe Louis. Era il 29 maggio del ‘36 il titolo dei mediomassimi fu messo in palio allo Yankee. Poi fu la volta di Cassius Clay il peso medio più famoso degli anni Settanta: fu “suonato” da Ken Norton, una delle sue pochissime sconfitte. E ancora allo Yankee stadium. Dove Lou Gehrig salutò il suo pubblico il 30 aprile del ’39. Sarebbe morto di lì a due anni, nel giugno del ’41, di quella malattia che ancora oggi porta il suo nome. E a quel mancino, prima base da 493 fuoricampo in carriera, è stato dedicato anche un film, “L’idolo delle folle”. Aveva 36 anni quando lasciò. E ancora allo Yankee. Poi fu la volta dei papi. Tra i ricordi del tempio del Bronx ci sono i volti miti di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, anche loro passati di qui, anche loro sulla mitica erba di questo stadio. Hanno pregato e fatto pregare. Se ne va un pezzo di storia con lo Yankee. E un altro pezzo se ne va con lo Shea, tempio a stelle e strisce dello sport di fine Novecento. E non solo. Allo Shea hanno cantato in tanti: Janis Joplin e la rombante “Mercedes benz” che quella roca voce alternava alla melodia di Bobby McGee; Paul Simon e i Police, Springsteen e gli Stones. Era l’America di “Bridge over troubled water”, che cantava “Me and Julio down by the schoolyard”. L’americano e il portoricano, il diverso, il povero, l’ispanico. Il melting pot delle razze che sono America. Quella che con Sting intonava “Moon over Bourbon street” e sognava che la Grande Mela assomigliasse un po’ a New Orleans. Era l’America che cantava “Born in the Usa” e che aveva ancora nelle orecchie quella “Satisfaction” che decine d’anni prima aveva fatto sobbalzare lo Shea. Addio.

Addio anche al tempio dei Mets. New York perde tutto questo e molto di più. Essere fuori dai playoff ha un prezzo, New York lo sa e sa anche quanto è alto. Gli Yankees in quest’anno sciagurato hanno portato allo stadio 4,3 milioni di spettatori, i Mets 4. Secondo il New York Post il mancato ingresso degli Yankees ha pesato per un ammanco da 141 milioni di dollari nell’indotto cittadino (bar, merchandising, diritti tv locali e quant’altro), quello dei Mets addirittura di 147, nonostante tra i due siano i meno titolati. Nel 2000 Yankees e Mets arrivarono a contendersi le World series, la superfinale dei supervincitori. Furono ribattezzate “subway series”, cioè campionato della metropolitana. Fruttò 192 milioni di dollari. Perché il baseball per gli americani è qualcosa più di uno sport. E’ un legame profondo, è l’amore viscerale, travestito da gioco, da passatempo. Il più newyorkese dei newyorkesi, Woody Allen, l’ha sintetizzato in poche parole: “Adoro il baseball. Non c’è bisogno di un motivo. E’ semplicemente bello da vedere”. E’ il cuore dell’America, quello che oggi non batte più perché due miti sono crollati, lo Yankee e lo Shea.

Risorgeranno, riapriranno. Il primo erediterà lo stesso nome del suo progenitore, sarà più grande, ma non sarà lo stesso tempio e per costruire un mito ci vuole un’epoca. Il secondo si chiamerà City field, dal nome dello sponsor. Anche questo è un segno dei tempi. C’era una volta lo Shea, c’erano una volta i Beatles. Era il ’65, furono immortalati in un memorabile concerto. Rinascerà.

Ma là non canteranno mai più Janis Joplin e gli Stones. E neanche i Beatles di John Lennon, sepolto con la memoria negli Strawberry Fields, sotto la parola “Imagine” e un tappeto di rose e girasoli. Là a Central park, a mezz’ora dallo Shea...

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