Roma - Dico o non dico? Se dico cado. Non dico (dal «non detto» del presidente del Consiglio, Romano Prodi).
«Il programma del governo è e rimane il punto di riferimento della nostra azione. Ma, proprio perché esso è già un punto di riferimento condiviso, oggi non ne ripercorrerò, uno per uno, i capitoli. Vi chiedo pertanto... di non giudicare il mio discorso per quello che esso non contiene» (il «detto» dello stesso presidente del Consiglio, Romano Prodi).
In ottemperanza a quanto richiesto ieri nell’aula del Senato, questo breve resoconto si chiuderebbe qui. Senza dire della fatica e degli sforzi compiuti assieme all’intero staff per dire senza dire, durante un’interminabile seduta di lavoro conclusasi poco prima della mezzanotte dell’altroieri e ripresa in mattinata, fino al Consiglio dei ministri delle 16. Non si dirà neppure della breve interruzione determinata dall’arrivo del senador Luigi Pallaro, nelle «scomode» (a suo dire) vesti di «ago della bilancia». Un incontro non felicissimo, visto che lo stesso Pallaro, poco prima delle comunicazioni di Prodi, rivelava la sua delusione per la permanenza dei Dico nell’azione (sia pure parlamentare) del governo. «Non ti preoccupare: finché stanno lì alla Camera - avrebbe rassicurato il premier - nessuno dice niente... Io per primo, e il Vaticano pure...». Non si dirà, infine, del significato reale del «non detto», che garantisce tanto il nuovo arrivato Follini quanto la sinistra. L’asse del governo sarà un po’ più a destra, ma non si lascia nell’angolo Rifondazione.
«Se avesse alzato un po’ la testa dall’erba, gliel’avrebbero mozzata», si sostiene senza dire. Visto dalla prospettiva del prc Giordano, si può ben dire che sia stato un discorso «di grande innovazione». Il ministro Mussi è più corretto nel suo dire: «Siamo stabili in una situazione instabile». Al socialista Boselli appare «un vuoto da colmare». E, in somma analisi, da un rifondatore di lungo andare: «La novità è che non c’è nessuna novità».
Eccoci finalmente a quanto detto da Prodi in 33 minuti e in 39 cartelle, nel personalissimo tono monocorde che tanto accende gli animi, e seguendo il suo ordine. Rivolto a se stesso, il premier non si è nascosto la «natura politica della crisi». Alla sua maggioranza, ha chiesto di «trarre fino in fondo gli insegnamenti di merito e di metodo». Al presidente Napolitano ha concesso che la «pronta riforma elettorale è un dovere, ma ne parlerò alla fine». A Turigliatto e compagnia, ha ribadito che la politica estera italiana si incardina nei paletti dell’Europa, della Nato, dell’Onu e dell’alleanza con gli Usa, di cui «coerentemente con il passato» ci si assumono e onorano gli impegni (la base di Vicenza è un «non detto»). L’Italia resterà a Kabul, ma siccome la sola presenza militare non basta si cercherà di promuovere la Conferenza di pace (anche con i talebani? È un altro «non detto», ma poi l’aveva detto meglio D’Alema).
Conti, risanamento, eccetera sono stati un «già detto». Così come la Tav, che sarà «cantierata e conclusa nei tempi più rapidi possibili», tenendo presente il metodo del «dialogo continuo e aperto con le comunità». Ambiente, welfare, famiglia, pensioni minime, lotta al precariato, Ici più bassa per le famiglie, altri «già detti», ma utili per confortare la sinistra radicale. Buono per la Lega, un accenno al federalismo fiscale. E, per Pallaro, agli «italiani nel mondo». Infine, il ritorno ab ovo, cioè alla legge elettorale per «concludere la transizione». Pausa di suspense, e solenne impegno: «Deciderà il Parlamento, non tocca a me dare un’indicazione di merito, è necessario un ampio consenso».
Applausi, cinque. Uno ironico di settori del centrodestra, uno isolato del senatore forzista Asciutti (sarcastico), due blandi dal settore della Margherita, uno finale dell’Unione. Di cortesia.
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