In un Paese come lItalia, che ha più paura delle parole che delle cose, bisogna scomodare un intellettuale libertario - non basta uno scontato liberista - per poter parlare senza remore di un tema come quello delle gabbie salariali. Tema brandito dal guerriero Umberto Bossi come vessillo della prossima battaglia politica della Lega (dopo aver già incassato il federalismo); e tema appena rilanciato da Silvio Berlusconi, pur se usando la più corretta espressione «retribuzioni legate al territorio».
«Giusto. Ma premettendo che, a mio parere, a ragionare di questo argomento dovrebbe essere più il Sud che il Nord», esordisce in pieno rispetto del suo ben noto approccio libertario il professor Carlo Lottieri, direttore del Dipartimento di teoria politica dellIstituto Bruno Leoni.
Ci spieghi meglio.
«Parto dal presupposto che il salario sia un prezzo e che in un sistema di mercato il prezzo debba essere libero, debba cioè adeguarsi alle diverse condizioni».
Questo perché?
«Perché se noi fissiamo dei prezzi, ovvero delle tariffe, imposti in questo caso con i contratti di lavoro nazionali, quello che può succedere, e infatti succede, è che in certi casi il prezzo risulti troppo alto, provocando una contrazione della domanda. E parlando di lavoro ciò si traduce per esempio nel 40% di disoccupazione giovanile in Calabria e nellinevitabile corollario del lavoro nero...».
Oppure?
«Oppure cè un prezzo troppo basso, con il risultato di aziende che, per esempio in Veneto, fanno fatica a trovare i dipendenti. In entrambi i casi, tutto ciò succede perché quel salario, cioè quel prezzo, è artificiale, non corrisponde alle esigenze di mercato».
«Libertari di tutto il mondo unitevi», verrebbe da dire. Ma come spiega che le gabbie fatichino a trovare partigiani anche tra gli stessi economisti del centrodestra?
«Credo che la loro contrarietà sia legata al fatto che le gabbie salariali, almeno così come si intendono, non sono la soluzione migliore. Non si può infatti concretamente pensare di ridurre i salari al Sud e di alzarli al Nord. Anche perché nemmeno uno stesso contratto unico per la sola Lombardia sarebbe ancora la risposta. Bisogna invece favorire la totale liberalizzazione dei contratti».
Alt, professore, una cosa per volta. O meglio, uno choc per volta. Primo: che cosa propone allora al posto delle gabbie, o come le vuole chiamare, per poter uscire - scusi il bisticcio - da questa gabbia semantica? Secondo: lei va oltre la stessa differenza tra Nord e Sud. Terzo, per dirla con il compagno Lenin: «Che fare?». Concretamente, è ovvio.
«Mi basta una sola risposta: lunica strada praticabile è appunto quella di superare il dogma dei contratti nazionali...».
Glielo va a dire lei ai sindacati?
«A loro e anche alla Confindustria. Gli direi grazie signori, è stato un piacere, ma ora ciascuno si prenda in mano la propria autonomia negoziale, percorrendo la via dei contratti aziendali, espressione a loro volta delle diverse realtà locali, geografiche».
Cioè oltre alla dicotomia delle gabbie, quella tra Nord e Sud?
«Ovvio, perché le stesse regioni non corrispondono alla realtà, esistendo oggettive differenze anche al loro stesso interno. Intendo dire, per esempio, che in termini di costo della vita Rovigo non è Vicenza, così come Lodi non è Milano. E poi, se mi permette...».
Dica, professore.
«Poi cè la considerazione che se si va verso il federalismo fiscale, diversificare i contratti sarebbe unopportunità per il Sud. Perché se le regioni meridionali fossero autonome fiscalmente, potrebbero sfruttare salari nominali inferiori, ma comunque salari reali uguali, potendo quindi esigere tasse più leggere e mettere così in moto un meccanismo virtuoso».
Delle gabbie, così come le intendono i più, salva qualcosa?
«Sì, riguardo al settore pubblico, dove non ha senso di parlare di contrattazione locale dato che manca una controparte.
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