«Nostro papà Gio Ponti amò la Torre Pirelli ma non il “Pirellone”»

A Milano, in via Rovani, nella casa dove oggi abita una delle figlie di Gio Ponti («Una casa che papà detestava, diceva che era un’architettura borghese, anonima, da catalogo»), una parete intera è occupata dal grande ritratto di famiglia che l’amico pittore Massimo Campigli dipinse nell’inverno del 1934: c’è Gio, la moglie Giulia («La mamma, una donna bellissima») e le tre figlie: Lisa, che oggi ha 84 anni, quaranta dei quali passati accanto al padre nella redazione di Domus, la rivista fondata nel ’28 e diretta da Gio Ponti per tutta la vita; Giovanna, che di anni ne ha 82, la maggior parte dei quali passati accanto al marito Alberto Rosselli, l’architetto che divise esistenza, carriera, studio, problemi e trionfi con l’altro Architetto, quello con la “G” e la “P” maiuscola; e Tita, la più giovane, che i suoi 74 anni li ha divisi tra lo studio del padre, Radio Popolare, Amnesty International e mille battaglie civili. Evocando il quarto fratello, Giulio, non ancora nato all’epoca del ritratto e l’unico a seguire la “linea” tracciata dal padre («Architetto e urbanista con una passione nel vietare: non sappiamo neppure quanti progetti di sindaci ha bloccato in Lombardia a salvaguardia del territorio. L’idea del Parco del Ticino, per fare un esempio, è anche merito suo»), sono loro a raccontare esistenza, carriera, carattere e trionfi di Gio Ponti, l’Architetto, un genio delicato e ostinato che ha disegnato il Novecento e creato la Torre Pirelli, simbolo di Milano e icona del miracolo italiano. Era la metà degli anni Cinquanta.
«Era il primo grattacielo europeo in cemento armato, una sfida agli Stati Uniti che invece costruivano in ferro. Una lama luminosa alta 120 metri con una struttura leggerissima». «Mi ricordo Pier Luigi Nervi, l’ingegnere che calcolò la struttura: arrivava in studio, si sedeva al suo tavolo e diceva a papà: “E adesso andiamo a caccia dei pesi inutili”». «Lei sa cosa nostro padre non ha mai sopportato? Che la gente e i giornalisti chiamassero la sua torre il Pirellone. Ci pativa, davvero. Ma come?, diceva, ho dato tutto me stesso per trasmettere una sensazione di leggerezza, e loro niente: il Pirellone, ...one, ...one. Lui la chiamava la Torre o la Pirelli. Sempre al femminile comunque». «Come fosse una donna: ti ricordi quando ci portava a vedere i lavori? Una sera. era da poco terminata, rimase a contemplarla in silenzio e poi disse: “È così bella che quasi la sposo”. Fu il culmine della sua opera, e l’amò davvero».
Come amò il lavoro («Il suo libro più celebre è Amate l’architettura, un titolo tipico di Gio Ponti: lui non chiedeva, imponeva») e come amò la famiglia. «E come noi abbiamo amato le sue intuizioni e le sue ossessioni». «Amato e sopportato. Non era un tipo facile Gio Ponti: Lisa lavorava con lui a Domus, mi ricordo quando stava per avere il primo figlio e papà telefonava per criticare il numero in lavorazione. Io gli dicevo, “Guarda che ha le doglie, ti prego...” e lui: “Sì lo so, ma c’è questa foto da cambiare, il pezzo da correggere...”». «Però lavorare con lui è stato bellissimo. Brontolava ma alla fine ci lasciava fare, era anti-ideologo, aperto alle novità, sensibile ai giovani talenti. E nello stesso tempo difficile da gestire. Ne sa qualcosa il suo editore, Gianni Mazzocchi...». Che Gio Ponti a certo punto abbandonò per fondare Stile, negli anni Quaranta, per poi però tornare “a casa”: con lui duellò tutta la vita.
«Come duellò tutta la vita con la mamma: litigavano e facevano pace, facevano pace e litigavano. Lei era l’unica capace di disubbidire a Gio, a disordinare l’ordine che papà, essendo nato per questo, voleva fosse perfetto, dai vestiti alla tavola apparecchiata». «Lui preparava le feste nei dettagli e lei faceva apposta a lasciare fuori posto una posata, una sedia: odiava la perfezione statica tanto quanto l’altro la amava. Erano una l’opposto dell’altro: lui le regalava una lavastoviglie, quando ancora in Italia non c’erano, e lei chiamava una gru per farla mettere sul prato; lei era contro il lavoro e lui viveva per lavorare...». «Papà dormiva quattro ore a notte e tirava giù dal letto i suoi collaboratori all’alba. All’epoca gli facevano rispondere che non c’erano, gli stessi che oggi si vantano dicendo: “A me Ponti telefonava alle cinque del mattino!”». «Comunque, come sempre in questi casi, non potevano stare lontani. Ancora a ottant’anni ci diceva: Non ce la faccio più, io divorzio, ma poi, quando Giulia morì, papà iniziò a sentirsi davvero solo. Se ne andò cinque anni dopo».
Era il 1979 quando se ne andò Gio Ponti. Architetto senza confini, hanno detto: perché disegnava tutto, ogni sogno che era capace di sognare, dai suoi stessi vestiti («Anche i nostri se è per questo. Nei suoi ultimi giorni, era ormai in coma vigile, Giovanna andò a trovarlo alla clinica San Giuseppe con un abito disegnato da lei, a vita alta, come si usava allora. Gli chiese: ti piace papà? Non disse nulla, ma fece così così con la mano...») alle sue case («A partire dalla casa di via Randaccio, nel ’25, poi quella in via Brin, con la piscina sul tetto, nel ’36, fino a quella in via Dezza, che dal ’57 divenne il centro del suo impero: all’ottavo piano l’appartamento per vivere e sotto il capannone per lavorare: un ex garage della Rinascente talmente grande che si entrava con la Lambretta e si parcheggiava fra i tavoli»), dalle ceramiche («Papà iniziò come direttore artistico alla Richard Ginori, nel ’23, fu lì che usò per la prima volta la firma Gio Ponti») agli oggetti di casa («La macchina per il caffè espresso Pavoni, ad esempio, e poi posate, lampade, tavoli, specchi»), dalla sedia Superleggera per Cassina («E la “Poltrona di poco sedile”, degli anni Settanta, quella con lo schienale che diventa gamba, comodissima, una delle cose che gli piaceva di più»), agli arredi dei transatlantici («Anche dell’Andrea Doria, lo sa?»), dalle scenografie per La Scala («Il teatro, una passione») alle cattedrali («Quella di Taranto, un capolavoro anche grazie a un committente intelligente, capace di difendere Gio Ponti da tutte le influenze, popolari e liturgiche: l’arcivescovo Motolese, talmente fiero di averla affidata a papà che poi volle essere sepolto lì»).


Forte sentimento religioso, carattere sensibile e cocciuto, versatile («e non eclettico, parola che non sopportava»), senza scuole né maestri, Gio Ponti ha costruito in tredici nazioni - dal Venezuela all’Iran - fondato due riviste, scritto saggi, firmato migliaia di progetti, ideato il Compasso d’oro, diretto le Triennali di Milano, insegnato Architettura per venticinque anni al Politecnico, detestato lo slogan italian style e inventato uno stile, il suo. «L’Italia l’han fatta metà Iddio, metà gli architetti», disse una volta. Gio Ponti, in questo, ha fatto abbondantemente la sua parte.

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