La notte a Sampierdarena il madonnaro e i segreti dell’arte di Michelangelo

La notte a Sampierdarena il madonnaro e i segreti dell’arte di Michelangelo

di Nicola Simonelli

È il racconto di un fatto accaduto anni fa a Sampierdarena, precisamente sotto i portici di via Cantore, in cui sono stato coinvolto. Al termine di una riunione politica, tenuta nella sede di via Balbi Piovera, anche se mancava poco alla mezzanotte, ritenni - era di sabato e all’indomani avrei dormito - di fare ritorno a casa camminando, senza attendere, per un tragitto di poche fermate, un mezzo. Il tempo clemente mi avrebbe invogliato per quella scelta. Si poteva vedere un cielo stellato, terso e dalle tante ville circostanti pervenivano folate di aria odorosa di piante. Davano piacevolezza. Inoltre, costeggiando un tratto di villa Scassi avrei visto scintillare, da qualche siepe, ancora delle lucciole. Quando giunsi nei pressi dell’incrocio con la Salita Corso de Colli (oggi, Corso Martinetti) sentii chiamare. Rallentando i passi, intravidi un individuo dall’età indefinibile, il quale, accoccolato sopra una pedana, andava dicendo con un tono tra il divertito e il preoccupato che, sotto ai fogli di giornale che stavo calpestando, involontariamente, giaceva un tesoro. Il suo tesoro.
Io, non intendendo, continuavo a schiacciare con indifferenza quella specie di lenzuolo fatto di giornali sparpagliati per terra. «Signore - sappia - che il disegno non lo abbiamo coperto per proteggerlo perché non soffrisse l’aria notturna. Ma, per proteggerlo dalla polvere». Chi aveva parlato era disceso da sopra quel sopralzo fortuito e, avvicinandosi con un largo sorriso, aggiunse: «È per ripararlo da gente pari a lei che per distrazione ne sbiadiscono quasi sempre le parti». Sulle spalle indossava un telo a mo’ di mantella e tra le mani teneva una bottiglia di vino semivuota. Era di statura elevata e corpulento.
«Stanotte termino di passarla qui. Veglio. Debbo assicurarmi che l’opera rimanga intatta. Il guardianaggio non è per i passanti. Al limite lo sfregamento si ritocca. Anche se la parte restaurata rimarrà più vivace, pazienza. Si riesce sempre a rimediare. Il guaio serio sono quelle macchine infernali». Cosa intendeva? La sua voce si era fatta baritonale e anche severa. Quasi rissosa. «Per fortuna sono stato avvisato che arriverà tra poco. Così, questa volta, gli correrò incontro e al conducente chiederò di serrare, per un pezzo breve del percorso, il getto idrico infame. Se per una sorte maledetta non riesco ad avvertirlo, sarà la fine. Il flusso dell’acqua cancellerà, in pochi secondi - è già avvenuto - un lavoro di oltre una settimana. Per loro, quelli del Municipio, la lavatura del pavimento deve essere fatta con scrupolo. Ignorano, purtroppo, il danno che mi recano».
E con invito cortese: «Venga, venga voglio che lei constati di cosa si tratta». Muovendosi aveva evidenziato la sua condizione di ebbrezza. Tuttavia si reggeva in piedi con compostezza e parlava con senno. Anzi il vino che aveva bevuto lo aveva reso, con probabilità, più loquace. Con solerzia si era messo a spostare i fogli di giornale ammucchiandoli, uno sopra l’altro, in un angolo del porticato. Terminata l’operazione di scoprimento, fatta con movimenti cotanto misurati, come stesse per aprire un grande tabernacolo, disse: «Ecco ciò che ho fatto». Avevo pensato si trattasse - dando una sbirciata di sfuggita - di una ampia macchia nereggiante senza significato apparente. Di uno schizzo preparativo prima del disegno originale. Oppure poteva essere che l’impressione ricevuta fosse stata causata dalla penombra dei lampioni del loggiato. A quell’ora propagavano una illuminazione fievole. Comunque non era da escludere che l’opera fosse stata ideata, invece, con una caratteristica inconsueta. Proprio in quel modo. Ormai, ero incuriosito.
Tuttavia, aguzzando lo sguardo, constatai che, su cui avrebbe dovuto esserci un ritratto o chissà quale altra raffigurazione, non vi era che una chiazza uniforme, scura e senza alcuna alternativa di cambiamento. Solo con insistenza, concentrandomi con più interesse, si potevano rilevare dei segmenti bianchi e grigi. E tali da volerci suggerire che non ci trovavamo di fronte ad una fisionomia copiata da un dipinto, ma che il soggetto era tratto - e non mi sarei sbagliato - da una scultura marmorea. L’uomo intervenne: «Senza dubbio presumerete che il sottoscritto abbia voluto utilizzare tinte impastate per magia - si fa per dire - con l’oscurità della notte. Non avete tutti i torti. In verità non sono considerato un madonnaro. Bensì, un eclettico. Uno fuori dal giro. Anche se il mio vivere è diventato vulnerabile e, rispetto a qualche anno fa, precario. Ciò non importa. È il frutto della mia coerenza. Nel nostro ultimo raduno di Legnago, dopo una discussione furibonda, l’ho ribadito. Non hanno voluto seguirmi. Peggio, mi hanno considerato pazzo. Appiccicandomi l’etichetta di nichilista. Figuriamoci».
Il tizio si rivolgeva non come se stesse parlando ad un unico interlocutore, ma come fosse ascoltato da molti uditori. «Ho voluto smettere di riprodurre Madonne dai colori caldi. La brillantezza dei gialli oro, dei verdi smeraldo e degli azzurri intensi hanno dato sempre sensazioni garantite. Ed hanno reso offerte facili. Tutto dovuto agli effetti che rimangono legati alla cromacità dell’immagine religiosa. Specie, poi, quando le effigi devote vengono fatte nei pressi dei sagrati delle chiese o nelle piazze dei Santuari, le suggestioni aumentano. Io ho tralasciato quei metodi e ho scelto l’essenzialità dei contenuti. Oggi adopero il carboncino e il gesso. E dalla mistura ricavo un terzo colore: il cenerino. È la gamma della mia tavolozza. Ho da sguazzarci. D’altro canto faccio bastare l’obolo che ricavo. E se, di frequente, non lo è, campo ugualmente».
Appoggiato con la schiena ad una colonna del porticato e con un dito puntato verso il basso, in direzione del suo lavoro, continuò spigliato: «Dove ho acquistato questa maniera di ritrarre soggetti dal valore artistico, somiglianti a macchie dilatate e nell’apparenza insignificanti? E a chi questa volta mi sono ispirato? Alla prima domanda rispondo che ho imparato dalla foggia delle icone. Ho appreso dalla preparazione iniziale. Nell’abbozzo. Dove il disegno, pur grezzo, ha già un senso. Infatti ciò che io faccio ricalca, appunto le sembianze di una icona immensa. E l’icona non sarà mai bella nella sua esteriorità. Rappresenta un atto meditativo. Più di quanto dimostri. Cela un martirio. Si porta dietro il peso del primo peccato dell’uomo. La vanità di avere voluto conoscere il mistero. L’icona è una figura appiattita. Priva, anche, di una qualsiasi prospettiva geometrica. Così, è all’apparenza. Perché nasconde, nel profondo della rappresentazione, un’anima sofferente. Però, attenzione, in quella tribolazione si nasconde un messaggio di salvezza. Il perdono».
E con fare furbesco: «Non si crucci. Non si crucci. Anche per il secondo quesito rispondo io. Senza nominarlo. Altrimenti il nome potrebbe chiarire subito l’uso abbondante della mia coloritura fuliginosa. Tipica di un materiale. Sarebbe la chiave per individuare, senza dubbio, a chi ci riferiamo. Per tanto è meglio arrivarci gradatamente. Acquista più fascino». E sospirando profondamente: «Abbiamo a che fare con una produzione artistica che non ha paragone con nessuno. Quel genio, a cui ci richiamiamo, per mezzo delle sue opere di scultura si interrogava sulla morte dell’uomo...».
E cambiando impostazione vocale: «Siamo espliciti. Il motivo ha una sua giustificazione». Ebbe un attimo d’incertezza. Sembrava avesse perso il filo del discorso. Poi, con lo sguardo, scorgendo che un’altra bottiglia conteneva ancora del vino, l’agguantò con un gesto rapido, l’accostò alla bocca e, senza prendere fiato, la svuotò da assetato. Riprese: «I due volti dell’opera si compenetrano. E fanno altrettanto i loro corpi: si trasformano in uno. Per cui l’intera fisionomia rimane, tra l’altro incompiuta, tutta a vantaggio del contenuto spirituale. Presumo che il discorso sia chiaro. Stiamo parlando di una sacralità dal significato sublime. Per questo è impossibile delinearne i contorni con precisione».
Adesso le sue parole le proferiva ad intervalli. Prima di pronunciarle, indugiava. Dava l’impressione di avere, persino, timidezza. Forse, gli era subentrata consapevolezza di avere a che fare con ragionamenti alquanto complessi. Comunque, soddisfatto del chiarimento, in parte, riuscito, con un calcetto scostò il paio di bottiglie rovesciate, si sistemò ritto su quella specie di rilievo in cui stava seduto e disse: «Il grande Maestro, con quella sua testimonianza, aveva riacceso le emozioni degli uomini. Ne aveva smosso i sentimenti. Suggeriva che si può - malgrado le sofferenze dell’esistenza - continuare ad essere utili. Impegnarsi. Lottare. La morte non giova a nessuno. Infatti, non è la Madonna a sollevare il Figlio, ma lo stesso autore della scultura che tenta di fare rivivere Cristo. Affinché possa continuare la sua missione? Come saperlo?»
«In siffatto blocco di marmo, Michelangelo - ne abbiamo rivelato finalmente il nome - ha voluto fondersi nel corpo del figlio svuotato e, nel medesimo tempo, unificarsi nella stessa Madre nell’atto di sorreggerlo. E, sapendo che anche per lui era giunta la fine, sperava che qualcuno - lo faceva intendere in maniera simbolica il suo abbozzo - lo sottrasse alla morte. E Michelangelo a chi altro poteva rivolgere il suo disperato appello se non a Cristo? I suoi soggetti scultorei avevano inseguito sempre - estremizzando la bellezza del corpo umano - l’idea di superare, vincere la morte fisica. La sua fu una vera ossessione per l’uomo. Era il suo assillo. L’uomo nella sua incognita. Nella sua dimensione terrena, nel suo essere nel mondo. In Michelangelo, sebbene rivelasse aspetti paganeggianti, gli si era radicalizzata una inquietudine religiosa. Dal modo in cui si era abituato alla solitudine e di cibarsi poco, si sarebbe potuto considerare un mistico. Perché solo i mistici, e non gli asceti, si lacerano per l’incapacità di non sapere incontrare Dio. La sua vita fu una fuga. Una ricerca dubitativa. Continua. Dalle risposte mai definite. Ipotesi mai appagate. E, da quel tormento, ci trasmise una genialità incommensurabile».
Al madonnaro non gli riuscì di proseguire il suo ragionamento critico. Come avesse avvertito che stesse per sopraggiungere un terremoto, tralasciò il discorso e si precipitò di corsa tra gli archivolti gridando: «Fermati. Fermati maledetta». Era sbucata l’autocisterna da via Giovanetti. Aveva attraversato e, simile ad un mostro, si dirigeva verso di noi con l’idrante dell’acqua in funzione... Poi, arrivata in piazza Montano, avrebbe girato attorno all’aiuola grande e ripreso il suo itinerario, lavando i portici di via Cantore dalla parte opposta...Dopo un po’: «Ehi, ehi amico mio, anche in questa circostanza ci siamo riusciti. Al momento, pare, che siamo fuori pericolo». Mi aveva chiamato con simpatia. Quasi ci si conoscesse da lungo tempo. L’uomo era inzuppato. I capelli gli sgocciolavano come fossero minuscoli rivoletti d’acqua. E continuando a sorridere: Sono stato costretto ad ostacolargli la corsa. Rischiando di essere travolto ho manomesso inversamente il getto della pompa...».
Ormai, si era fatta notte inoltrata. Lo salutai e me ne andai di fretta. «Non se ne vada. Non se ne vada. Dobbiamo terminare il nostro discorso». E con ostinazione: «Sappia che quel genio non ha lasciato scritto niente di filosofia. Eppure creò l’occasione di evidenziarla - come si è detto - in un masso appena sgrossato, rimasto inconcluso. Fu l’ultimo capolavoro. Aveva novant’anni. Risulta la sintesi di quanto fosse lontano dal periodo storico in cui aveva vissuto. Nella discontinuità dei solchi, impressi rabbiosamente con lo scalpello, traspare una progettualità scarnificata. Eravamo al culmine del suo pensiero. Aveva capito che l’arte era un inganno. Un inganno come la vita... Non accettava...».
Queste ultime affermazioni, da lontano, non le sentii. Ma, ebbi la sensazione di intuirle... Forse, aveva voluto dirci che non accettava di arrendersi al destino...Passati alcuni giorni, al madonnaro volendo offrirgli qualche mio risparmio e scusandomi di non averlo potuto fare prima, mi recai dove avvenne il nostro incontro. Purtroppo constatai, con amarezza, che non c’era. E anche del suo disegno non vi era traccia.

Eppure dell’assemblea a cui avevo partecipato, prima di quell’incontro, conservavo gli appunti... Si era discusso della situazione faticosa che attanagliava l’uomo... del periodo di essere allontanati dalla nostra tradizione culturale, ideale.

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