Amava dire che il suo cinema era, prima di tutto, un esercizio interiore; che equivale a un vero paradosso per unarte che è, prevalentemente, un linguaggio esteriore. Eppure, Robert Bresson - cui la Fondazione cineteca italiana dedica, da domani, a dieci anni dalla scomparsa, una interessante rassegna dal titolo: «Robert Bresson. La questione morale nel cinema» - è stato maestro indiscusso e, soprattutto, influente, del cinema transalpino tanto da essere considerato, dai «Cahiers du Cinema» un fondatore della «Nouvelle Vague». Il che non è fatto trascurabile se si considera il suo essere inviso, per quel suo coerente rigore espressivo, dallindustria del grande schermo. Perché Bresson, pittore accostatosi al cinema quasi per caso, era uomo che non accettava mezzi termini; nel senso che per lui fare film doveva essere un «non spettacolo», un linguaggio dellanima, uno sguardo nella coscienza e nello spirito di «eroi», nel bene e nel male, segnati dal trascendente.
Riguardando le sue opere, ci accorgeremo della grande cura che metteva in ogni lungometraggio, a partire dalla cervellotica attenzione che dedicava non solo al montaggio ma anche alla musica, che doveva accompagnare segnatamente le immagini. Anche perché, per lui, la recitazione non era fondamentale, apparentemente assente; quasi fosse un ostacolo per comunicare in maniera più costruttiva ed emotivamente più partecipata con uno spettatore che era innanzitutto chiamato, direttamente e in prima persona, a capire lo stato danimo dei protagonisti (scelti, in molti casi, fra gente della strada). Un perfezionista dello stile che non concedeva sconti, Bresson, amante di quel Dostoevskij dal quale elabora il tema della redenzione di Delitto e castigo travasandolo in Pickpocket (14/3), pellicola che rifiuta lintreccio lasciando allo spettatore, nel finale, la libertà dellinterpretazione. Straordinaria è, da questo punto di vista, linnovazione portata con il bellissimo Diario di un curato di campagna (20/3), nel quale Bresson filtra lessenziale depurandolo dal superfluo. Tratti che non troviamo ancora in La conversa di Belfort (11/3) e Le Dames du bois de Boulogne (20/3 proiettato in versione originale francese), sue «opere prime» che seguono canoni piuttosto tradizionali. I suoni esaltano, invece, Un condannato a morte è fuggito (11/3,) alternando musica e rumori. Del resto, la gestualità è uno dei tratti più caratteristici della sua filmografia e Il processo a Giovanna dArco (22/3) è esemplificativo e illuminante della sua concezione di rigore.
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