Meglio assenti e lontani che in cattiva compagnia. Bibi la pensa così. Pensa che andare a Washington per farsi dipingere da Turchia ed Egitto come una canaglia nucleare della stessa risma del grande nemico Mahmoud Ahmadinejad non sia un grande affare. Certo neanche girare i tacchi allultimo momento e spedire al proprio posto il vicepremier Dan Meridor è una gran pensata. Meridor sarà anche il ministro per lenergia nucleare e la sicurezza, ma Obama non gradirà certo quella fuga in zona Cesarini, quellennesima piroetta con cui Netanyahu si allinea a una cinquantennale politica nucleare allinsegna dellambiguità e dellopacità. E soprattutto non gradirà unassenza che rimanda i chiarimenti su alcune questioni - irrisolte durante il tormentato vertice di tre settimane fa - su cui Bibi si era impegnato a rispondere in tempi brevi. Dunque opacità su tutta la linea, silenzio e reticenza non solo sul nucleare, ma anche su insediamenti, trattative con i Palestinesi, status di Gerusalemme e confini dello Stato ebraico. Quel che basta per far precipitare di unaltra tacca il barometro delle relazioni con Washington. Certo la presunta, possibile insolenza di turchi ed egiziani pronti ad approfittare del vertice sulla sicurezza nucleare di martedì prossimo per chiedere maggior trasparenza sugli arsenali israeliani è unottima scusa. Ma non basterebbe a giustificare unassenza legata, secondo altri bisbigli, allirritazione di un Bibi infuriato per aver appreso da Washington Post e New York Times che la Casa Bianca avrebbe avviato lo studio di un nuovo piano di pace senza neppure consultarlo.
Se la mancanza di trasparenza israeliana su negoziati e questione palestinese è contingente quella sugli arsenali nucleari è praticamente eterna. Il mondo ne discute sin dal 1967, quando lallora ministro della Difesa Moshe Dayan tenne a battesimo la prima bomba atomica israeliana decorata - secondo la leggenda - con la scritta Mai più. In quelle due parole è racchiusa la dottrina strategica dello Stato ebraico, quellOpzione Sansone che prevede lutilizzo della potenza nucleare pur dimpedire un nuovo genocidio. Non a caso i primi studi per arrivare alla costruzione dellarma iniziarono un anno dopo la nascita dIsraele e proseguirono, grazie alla complicità francese, con la costruzione del reattore di Dimona. Ma il colpo decisivo fu - secondo la Cia - la sottrazione nel 1965 di oltre 100 chili di uranio arricchito dai depositi della Numec, unazienda di Apollo in Pennsylvania diretta da un presidente ebreo e responsabile della fornitura di combustibile nucleare alla Marina statunitense. Pur sospettando, lAmerica accettò di non vedere. Nel 1969 fu proprio il presidente Richard Nixon a suggerire la cosiddetta politica di ambiguità al premier Golda Meir raccomandandole di «non rendere visibile lintroduzione delle armi nucleari e di non avviare test atomici».
Da allora lambiguità è il caposaldo della strategia nucleare israeliana. Lunico a tentare dinfrangerlo è stato, nel 1986, il tecnico nucleare Mordechai Vanunu fornendo al Sunday Times le foto e le prove dei segreti di Dimona. Rapito a Roma e riportato in Israele Vanunu pagò con 18 anni di dura galera quel gesto, ma regalò allOccidente elementi sufficienti per stimare le capacità e le potenzialità israeliane. Oggi gli esperti ritengono che Israele possieda da un minimo di 100 testate a un massimo di oltre 400. Laspetto più impressionante è però la varietà di un arsenale che spazierebbe dalle cosiddette testate tattiche, montate su proiettili dartiglieria a quelle strategiche in grado grazie ai missili Jerico III e ai sottomarini classe Dolphin di raggiungere ogni parte del globo.
Quel che fa più paura, e su cui anche Obama vuole vedere chiaro, è il possibile utilizzo di atomiche tattiche contro lIran.
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