Caro professore,
ho fatto il mio viaggio nei manicomi spinto solo dalla curiosità perché per me quello era un mondo assolutamente sconosciuto. Ho visitato centri diurni, residenze assistite e case protette dove gli operatori lottano per restituire ai pazienti uno scampolo di dignità. Poi mi sono documentato. Sapevo che la legge 180 ha portato benefici, soprattutto grazie alla chiusura delle strutture manicomiali. Ma non sempre è così. Nel mio viaggio, mi sono imbattuto in un residuo manicomiale dove i malati vagano come zombie per il giardino abbandonati a loro stessi. Non hanno nulla, ma proprio nulla. Nelle loro stanze fatiscenti ci sono un letto, un armadio e basta così. Sono rimasto esterrefatto.
Sono d’accordo con Lei che questa legge vada modificata, soprattutto per aiutare le famiglie. Quando un malato è ingestibile, quando ha una sindrome che lo rende incapace di badare a se stesso oppure è potenzialmente pericoloso per gli altri, la sua casa diventa un manicomio e i famigliari purtroppo dei carcerieri: lo tengono lì, non lo fanno uscire e lui vive 24 ore su 24 in prigione. Questo è il punto.
Poi le lettere. Mi chiede se oggi l’Antonio della mia canzone Ti regalerò una rosa riuscirebbe a mandare il suo messaggio d’amore. Penso di sì. Oggi per i malati è molto più facile comunicare, possono usare le e-mail e le barriere sono comunque molto più attenuate di un secolo fa. Nel mio viaggio, ho letto molti fogli indirizzati dai «matti» di inizio 900 alle famiglie, tutti scritti con grafia infantile, pieni zeppi di errori ma anche di dolcezza e speranza spesso vana. Quelle buste non partivano mai: rimanevano lì nei manicomi, nascoste proprio a pochi metri da chi credeva di averle spedite. Ho letto i loro sfoghi: ma come, vi ho già scritto dieci volte e ancora non mi avete risposto! Ai nostri tempi, quelle disperate richieste d’amore avrebbero molte più speranze di arrivare a destinazione.
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