Ora le banche aprano i cordoni della borsa

Per le banche il periodo della grande paura è passato. Lo testimoniano le performance borsistiche delle azioni dei maggiori istituti di credito, lo confermano le stabilizzazioni dei prezzi dei loro titoli di debito, lo provano i risultati semestrali che stanno man mano venendo resi pubblici, risanati dalle sostanziali riprese di valore sui portafogli delle attività finanziarie.

Ora che lo tsunami innescato dal fallimento della banca d’affari Lehman Brothers sembra passato, invece di contare morti e feriti sembra opportuno che si faccia qualche riflessione seria sull’istituto «banca» in proiezione futura. Innanzitutto da questa crisi è passato un messaggio molto chiaro: una banca non può e non deve fallire, perché il costo di sistema di un fallimento di un ente creditizio è molto superiore al costo necessario per salvarlo. In teoria il concetto non era nuovo: l’istituzione delle Banche centrali serviva infatti, tra le altre cose, a rendere visibile la garanzia superiore che vigilava sui denari depositati.

La novità sta, in primo luogo, nell’aver ribadito il principio oltre ogni dubbio e in secondo luogo nell’aver messo in chiaro che all’occorrenza la garanzia sarebbe stata estesa e fornita direttamente dagli Stati, anche sovranazionalmente. Nella frenesia delle fasi più acute della crisi, questo messaggio ha impiegato sin troppo tempo a passare, ma alla fine (grazie soprattutto alla determinazione di Sarkozy, allora provvidenziale presidente di turno dell’Unione Europea, ben supportato dal governo italiano) il principio del rifiuto del fallimento bancario anche come eventualità si è fatto strada e i risultati si sono visti. I titoli di debito subordinato (in teoria quelli con garanzie inferiori) emessi dalle banche italiane sono passati da prezzi vicini a 25, registrati a fine marzo, agli attuali 85, quindi quasi vicini al livello di normalità pre-crisi, pari a 100. Tali escursioni di prezzo dimostrano che, anche se in Italia il sistema era più sano e non c’è stato bisogno di erogazioni dirette, il mantello delle garanzie statali che ha portato l’Europa a impegnare a favore del sistema bancario oltre il 30% del Pil, una cifra iperbolica, si è rivelato indispensabile. A questo punto spetta alle banche dimostrare di essersi meritate la fiducia dei governi che le hanno salvate grazie al denaro dei contribuenti. L’esercizio non è facile perché il pericolo è che si finisca peggio di prima: un banchiere senza scrupoli potrebbe, infatti, gettarsi in speculazioni ancora più rischiose sapendo che in caso positivo incasserà ricchi bonus e, in caso negativo, pagheranno i governi e quindi i cittadini stessi. Occorrerà, quindi, un serio dibattito sulla governance e sui controlli, dato che è un po’ difficile pretendere totale indipendenza quando si è avuto così platealmente bisogno dei soldi pubblici. Il dibattito sui nuovi controlli sarà prevedibilmente lungo, ma un buon modo di cominciare sarebbe per le banche quello di allentare, e di molto, a settembre quella stretta creditizia che si è ripercossa soprattutto sulla piccola e media impresa.

La mossa di chiudere i soldi in cassa, anche se miope, può essere stata giustificata dal panico, adesso che il vento è cambiato e che l’approvvigionamento di denaro del sistema bancario non è più un problema, occorre un deciso cambio di marcia: i tassi sono ai minimi e quella stessa facilità di accesso al credito che è stata concessa alle banche stesse deve essere trasferita pari pari al tessuto economico, a cominciare magari proprio dalle difficoltà dei clienti più fedeli e dalle idee innovative dei giovani. Non ci sono dubbi sul fatto che il sistema del credito sia «in debito» nei confronti dei cittadini, speriamo che sappia ripagarlo con la stessa solerzia con cui cura le proprie riscossioni.

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