Un Oscar al regista «contro» Se è coerente non lo ritirerà

Nel suo mezzo secolo di cinema cominciato nel 1957 con «Storia di James Dean» molti capolavori e qualche opera discutibile

Maurizio Cabona

Robert Altman è stato regista di notevoli e talora grandi film collettivi, da Mash (1970, Palma d’oro) a Nashville (1975), da Tre donne (1977) a Un matrimonio (1978) dai Protagonisti ad America oggi (1993). Fra un paio di mesi avrà anche l’Oscar alla carriera e l’occasione si offre per uno di quei bilanci di una carriera che somigliano tanto a commemorazioni. Insomma, a necrologie.
Nel mezzo secolo di cinema di Altman, fra la dimenticata Storia di James Dean (1957) e la superflua Company (2003), il meglio sta nel mezzo: fra Conto alla rovescia (1967) e America oggi (1993, Leone d’oro). Tecnicamente, esteticamente, forse anche moralmente, America oggi supera Conto alla rovescia. Ma miticamente no: il prometeico e allora ancora fantascientifico personaggio di James Caan - primo americano sulla Luna, che affida la salvezza alla zampa di coniglio datagli dal figlioletto - è più indelebile nella memoria dei componenti dell’esigua moltitudine californian-carveriana di America oggi, di cui si ricorda solo la pettinatura di Lyle Lovett (chi sarà il suo barbiere?) e lo splendore di Julianne Moore al naturale, frontale e integrale.
Di Mash si è parlato anche troppo, per l’antimilitarismo sullo sfondo della guerra di Corea, ma con evidente allusione al Vietnam. Eppure oggi, davanti a un neocolonialismo incontrastato, perfino questo film sopravvalutato finisce col mancarci, perché nella sua goliardia aveva almeno il coraggio di irridere un neocolonialismo contrastato (dall’Unione Sovietica). Altman è stato un po’ il Chomsky del cinema, anche se ha sempre aggirato la politica, a differenza di quasi coetanei come Warren Beatty, che è stato anche suo attore in uno dei più insoliti western crepuscolari, I compari (1971).
L’autobiografia dell’America che emerge pochi anni dopo da Nashville (1975), è uno dei momenti più alti della Hollywood che in quel periodo trovava d’oro le «teste d’uovo» autoriali. Per la prima volta nella storia del più grande cinema del mondo, persone intelligenti erano ben pagate per sembrare più intelligenti, anziché più stupide, come accadeva prima e, soprattutto, come accade ora.
Superbo nello sferzare - talora anche accarezzare - il provincialismo degli Stati del Sud con Nashville, ma anche con Gang (1974), Kansas City (1996), Conflitto d’interessi (1997) La fortuna di Cookie (1999), meno nel corrodere i luoghi comuni della buona società inglese in Gosford Park (2001), Altman ha perso l’occasione di firmare il film dei film sulla California, quando ha ridotto il capolavoro di Raymond Chandler, ambientato nel 1948, a una sgangherata satira stile 1968 e ambientata nel 1973 come Il lungo addio, complice un Elliott Gould, cui i devoti di Philip Marlowe non perdoneranno mai lo scempio del loro personaggio letterario favorito.
Dalla collaborazione con Altman è uscita, meglio di Chandler e di Gould insieme, Susannah York. La butirrosa ma stupenda attrice inglese interpreta Images (1972), tratto da un suo stesso libro, e riesce nel filotto di vincere anche il premio come attrice al Festival di Cannes!
Quanto agli attori italiani, è capitato a Vittorio Gassman e Gigi Proietti di trovarsi coinvolti nel Matrimonio; e a Marcello Mastroianni e a Sophia Loren, chiamati in Prêt-à-porter (1994) a rifare la scena dello spogliarello nel desichiano Ieri, oggi, domani (1964). Ed è stato Prêt-à-porter il canto del cigno dello stile di Altman, nel senso che il collettivo sembrava ammucchiata e la satira di affidava a battute così così («Riconosco i bianchi dagli abiti», diceva l’autista, approssimativamente indocinese).


Se Kansas City era un’occasione perduta, dove il quadro d’epoca del Missouri cedeva al quadretto femminile parafemminista, I protagonisti (1992) - tratto dal bel romanzo di Michael Tolkin (Bompiani) - aveva almeno il pregio di riferire che piega aveva ormai preso Hollywood, dove ogni soggetto va raccontato in venticinque parole e ogni film deve finire bene. Ora, alla notizia che gli daranno l’Oscar, sarebbe coerente per Altman lasciarlo lì, come fece Sartre col Nobel.

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