da Milano
Il calcio traballa. Anzi, no. È la serie A italiana che, negli ultimi anni, ha dato segni crescenti di cedimento finanziario. Il football, declinato in modi diversi, è un buon affare.
La Champions League funziona. E anche molti altri campionati nazionali sono in un equilibrio economico che, alla fine, produce ricavi e risultati netti positivi, con passività e debiti sotto controllo. Nella Bundesliga, ormai al primo posto per le presenze di spettatori allo stadio, come nella Premier League, segnata dal mix della tradizione del Manchester United e del turbocapitalismo di Roman Abramovich, proprietario del Chelsea. Il problema non è la disciplina sportiva in sé, quanto il modello di business che viene adottato.
A raccontare unindustria globale il cui fatturato annuo supera i 300 miliardi di dollari lanno, è il saggio di Gianfrancesco Turano, giornalista del Mondo, «Tutto il calcio miliardo per miliardo» (Il Saggiatore). Un libro che racconta anche gli aspetti più divertenti e disperati di uno sport che sembrano distillarsi nella figura straniata di Diego Maradona che, alla moglie Claudia, durante il ricovero in un ospedale psichiatrico cubano, dice: «Qui cè qualcuno che dice di essere Napoleone, un altro Giulio Cesare. Quando dico che sono Maradona, non ci crede nessuno». La dimensione saliente del saggio resta però quella economica. E, fra le sue molti chiavi interpretative esplicite o implicite, cè quella del modello di business e delle regole di strutturazione del mercato: la serie A non va bene perché non è venduta come prodotto unico, ma vede ciascuno dei protagonisti, squadre in primis, muoversi in ordine sparso. Basta osservare il capitolo dei diritti televisivi, che in una squadra di alto livello di serie A valgono il 60% dei ricavi. Dal 1999 ognuno è andato per conto proprio e ha trattato, in base alla propria forza, i contratti con le pay-tv. Adesso, sulla scorta di quanto capita nel resto dEuropa, la normativa Melandri-Gentiloni ha deciso che ritornino a essere diritti collettivi. «È una svolta giuridica - dice Giovanni Palazzi, ad della società di analisi dello sport business StageUp - a cui le squadre dovranno conformarsi». Sulla carta le risorse raccolte andranno divise almeno per la metà in parti uguali; il resto sarà distribuito sulla base dei risultati agonistici e del bacino dutenza delle singole squadre, fermo restando una quota da riservare alla promozione dello sport di base. Criteri in parte generici e da definire bene. Una definizione che toccherà alla Lega Calcio, dove si porrà la questione dei rapporti reali che si instaureranno fra le piccole società e i big quali il Milan e lInter delle famiglie Berlusconi e Moratti. Il principio della redistribuzione della risorse favorisce linnalzamento della concorrenzialità del mercato: un assunto che risulta efficace per esempio nella Champions League, in cui, i soldi raccolti finiscono perfino, per un 12,6%, alle squadre che non vi partecipano. E che, magari, reinvestendoli, si rafforzeranno guadagnando così laccesso alla successiva Champions. Un modello adoperato pure nella ultraredditizia Nba guidata dal commissario David Stern. «Nel professionismo americano - osserva Palazzi - il principio della prevalenza del marchio della lega, che è venduto come spettacolo complessivo e non quale sommarsi di una moltitudine partite, si riflette anche nel merchandising. Nel football americano, i diritti sul giubbotto dei Chicago Bears sono ripartiti fra tutti i team».
Gli Stati Uniti, per il calcio italiano, sono un esempio maturo in cui lespansione del business è fondata su regole che tendono a evitare una eccessiva concentrazione di potere e di risultati. Turano ricorda che, nella Nba e nella lega dellhockey Nhl, è attivo il tetto salariale. Un meccanismo che ha calmierato gli stipendi.
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