Cronaca locale

«Papà Giorgio Gaber milanese metropolitano con il vizio di ridere»

La figlia Dalia racconta vita, esordi e successi del grande «cantattore»: l’autoironia, la passione per il teatro, la diffidenza verso la tv, la curiosità per le idee e l’odio per le ideologie

Luigi Mascheroni

«La prima cosa che mi viene in mente pensando a mio padre è una nottata di chiacchiere, risate e sigarette». Giorgio Gaber era uno che parlava molto, rideva sempre, fumava troppo. «Passavamo parecchio tempo insieme. Mi ricordo serate interminabili con lui, la mamma e gli amici, le vacanze in Toscana e poi anche quando non vivevamo più insieme, almeno un paio di sere alla settimana cenavo con lui, e lo sentivo al telefono tutti i giorni, come una figlia e un padre normali».
Giorgio Gaber però non era un padre normale: era uno dei pochissimi che poteva permettersi di essere famoso anche senza andare in tv, cosa quasi impossibile nel nostro Paese. Dalia Gaberscik rispetto a papà, oltre la desinenza in “scik”, ha la stessa voce, la stessa vitalità e quell’identico strano modo di sorridere. Ha 40 anni, una agenzia di comunicazione e un sacco di ricordi di suo padre. «Che tipo era? Così come lo vedeva il pubblico in scena. Un uomo soprattutto allegro. No, non allegro. La parola giusta è: divertente, nel senso di piacevole da frequentare, uno con il quale sei contento di passare una serata anche solo a parlare». Di parole Gaber ne conosceva tante: ha passato una vita a recitarle, cantarle, raccontarle. E noi lì, ad ascoltarle.
Debuttò al Santa Tecla, insieme a due tipi che si chiamavano Adriano Celentano ed Enzo Jannacci per dire la Milano di quei tempi, alla fine dei Cinquanta; fu notato da un tipo che si chiama Mogol e scrisse la sua prima canzone con tipo che si chiamava Luigi Tenco. Poi, tutto il resto: nel ’61 la prima volta a teatro, con Maria Monti; nel ’63 con Canzoniere minimo l’approdo in tv, quattro Festival di Sanremo, poi il botto: all’apice della popolarità Gaber chiude con la televisione e si dà completamente al teatro: è il 1970, l’anno in cui porta al Piccolo Il signor G. «Quello tra mio padre e la tv fu un rapporto di grande diffidenza. All’inizio, negli anni Sessanta, gli piaceva. All’epoca c’era un canale solo e lui conduceva lo spettacolo del sabato sera, figuriamoci. Era più famoso di Fiorello oggi. Una popolarità incredibile, me lo ricordo quando veniva a prendermi a scuola... Poi andando avanti, mio padre ha subito come dire?, più la censura del tempo che quella del pensiero: ha perso l’entusiasmo, non la considerata più un mezzo adatto per trasmettere quello che voleva dire. Insomma, a un certo punto non ce l’ha fatta più. Anni dopo spesso mi ha detto: ma è possibile? In tv per fare una cosa che viene vista da dieci milioni di persone provavo sì e no un quarto d’ora. Per uno spettacolo teatrale che ha mille persone in sala ci lavoro un mese... Perché poi papà era precisissimo in queste cose: i testi, le musiche, le luci, gli allestimenti, provava e riprovava dieci volte prima di andare in scena...».
In scena: solo lì Gaber era davvero Gaber. Lo hanno definito qualunquista, controcorrente, anarchico, anarcoide, un uomo contro, un cane sciolto. Ma lui come si definiva? «Non si definiva, diceva solo: “Sono Giorgio Gaber, sempre fedele a me stesso”». Già. Fedele a se stesso quando nel ’65 sposò una giovanissima Ombretta Colli, allora studentessa di lingue orientali alla Statale, fedele se stesso quando si sposò una seconda volta, in senso artistico, con Sandro Luporini con il quale ha scritto tutto quanto si poteva scrivere, fedele a se stesso quando decide, all’improvviso, di tornare al mercato discografico, nel 2001 con l’album La mia generazione ha perso, una canzone che vale una trattato di sociologia, fedele a se stesso anche quando scelse di riapparire in tv per chiudere davanti al suo pubblico con lo stesso amico con il quale aveva iniziato: Celentano. Il ragazzo di via Landonio e il ragazzo della via Gluck.
«Ma naturalmente per rimanere fedeli a se stessi qualcosa si deve pagare. E papà ha pagato tutto. Le critiche quando era vivo, i mancati riconoscimenti adesso che è morto - lo dico con tutto rispetto per il Nobel a Dario Fo: ma papà ha scritto cose più importanti del Diavolo con le zinne - e tutto questo da cosa dipende? Dal fatto che non ha mai scelto uno schieramento. Mio padre aveva tante idee ma nessuna ideologia. Le considerava una forma di stupidità».
La stupidità era la cosa che Gaber odiava di più, e per questo era al centro della sua arte, nel senso che ne era il bersaglio preferito, insieme all’ipocrisia, il buonismo, l’egoismo, gli intellettuali coglioni, la gente che si prende e prende tutto troppo sul serio. «Ecco invece la dote più grande di papà: l’ironia e l’autoironia, la capacità di ridere in maniera intelligente della vita, del mondo, della gente». Quella stessa gente, ed è un’altra ironia, che non ha mai abbandonato questo irregolare, strampalato irresistibile “cantattore”, che comprava i suoi dischi, lo seguiva in tournée, si metteva in coda alle tre del mattino con i sacchi a pelo per comprare i biglietti dei suoi spettacoli... accadeva nell’85, ad esempio, fuori dal Lirico per Io se fossi Gaber: sei settimane consecutive di tutto esaurito. «Se il Piccolo fu il teatro della nascita artistica, il Lirico fu quello della consacrazione. Ora glielo vogliono intitolare: Teatro Lirico Giorgio Gaber si chiamerà».
Suona bene: “Teatro Lirico Giorgio Gaber”. Se lo vedesse lui, camminando per la città, un po’ ingobbito con il bavero rialzato, un’insegna con scritto in grande: “Teatro Lirico Giorgio Gaber” con le luci che bucano la nebbiolina di una sera milanese... cosa direbbe lui? Com’è bella la città/ com’è grande la città/ com’è viva la città/ com’è allegra la città./ Piena di strade e di negozi/ e di vetrine piene di luce/ con tanta gente che lavora/ con tanta gente che produce... «Papà amava questa città. Era veramente un cittadino metropolitano, nel senso che di Milano amava proprio il fatto che era metropoli. Era qui che si sentiva a suo agio, qui dove c’era una grande offerta di tutto, anche se lui era un fruitore di poco. La città, non la campagna o la montagna. Era buffo: papà diceva che gli piaceva il cemento, lo smog, il traffico... Anche quando se ne andò in Toscana mica fu una fuga. Solo che lì si era trasferito Sandro Luporini con il quale lavorava. Una fuga, figuriamoci: fosse stato per lui, avrebbe fatto anche le vacanze a Milano...».
A Milano Gaber nacque, nel ’39, in una casa di via Landonio, tesa tra la via Melzi d’Eril e via Procaccini, qui studiò, prima da ragioniere poi Economia commercio, senza finirla, alla Bocconi, qui debuttò al Santa Tecla, dietro il Duomo, qui recitò la prima volta, al Teatro Gerolamo, da qui partirono tutti i suoi spettacoli più belli, qui aveva i suoi amici, nella Milano del Giambellino, del Derby, del Cerutti Gino, dei trani a bere barbera da due soldi e del Bardelli a comprare le giacche da due milioni. «Quello sì, papà ha sempre vestito benissimo, sempre elegante, d’estate veniva a prendermi in spiaggia in cravatta e panciotto...». Un tipo “classico” il Gaber, senza vezzi e senza vizi, con solo due manie: le clark che metteva tutto l’anno e le Marlboro rosse che fumava tutto il giorno. «Gli dicevo sempre “Papà fumi tanto”. E lui: “Più di così non posso”. Infatti, quando ha smesso mi sono detta: qui c’è qualcosa che non funziona». Quel qualcosa, piano piano, ha smesso di funzionare nel 2003, il giorno di Capodanno. Giusto in tempo per un nuovo inizio, sempre a modo suo.

«Papà ha sempre fatto quello che voleva nella vita, e infatti diceva: “La vita è meravigliosa”».

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