nostro inviato a Bolzano
«Per arrivare prima prendevo delle scorciatoie, le chiami pure tangenti, ma i risultati c'erano, sa? La fibra ottica in Italia l'ho fatta io; quando invece arrivai ai telefoni di Stato avevano fatto in mezzo secolo 250mila circuiti analogici; io in cinque anni arrivai a 750 mila e tutti digitali. L'importante era scegliere le aziende giuste, che pagavano sì i partiti ma che sapessero anche lavorare. Mica palle».
Giuseppe Parrella per la procura è l'uomo chiave delle tangenti Siemens-Italtel. Potentissimo direttore generale dell'azienda di Stato per i servizi telefonici (nell'allora gruppo Stet), oggi è accusato di aver movimentato negli anni '90 141 miliardi tra stecche e fondi neri. Ci aspetta a Bolzano, dove vive da anni, seduto rigorosamente spalle al muro, all'ultimo tavolino nel parco di un albergo cittadino. Dice che ha chiuso con il pubblico che «trovo rivoltante». Una sorta di catarsi che potrebbe essere utile per capire chi incassò il denaro per far finire Italtel sotto Siemens. Perché proprio Parrella senza difficoltà spiega il sistema delle tangenti con le imprese che pagavano «dall'1 al 3% a seconda del settore, industriale, manifatturiero, dei servizi».
Inciampa negli scandali di fine '900 dalle carceri d'oro, «l'architetto De Mico? Da nano l'ho fatto diventare un grande...», fino a Mani pulite.
Invece nega tangenti su Italtel-Siemens, giura che lì soldi non ne sono passati ma ammette che non aveva senso che lo Stato uscisse dalle telecomunicazioni: «Va bene regalare la chimica, i trasporti ma le telecomunicazioni sono uno snodo nevralgico per ogni Paese. I privati pensano solo a fare profitti e si è visto con Telecom come è andata a finire». Ma nega le tangenti senza convincere, per arginare le domande, essere lasciato perdere. Di Italtel non si parla. È un veto invalicabile. Parrella lo ripete all’infinito: «Sono uscito da questo mondo nel 1993, quel mio ruolo è finito, ho voltato pagina e quando volto pagina dimentico quanto accaduto, è chiaro?». Mah. E la procura di Bolzano, ingegnere, i Pm la indagano per corruzione, concussione e riciclaggio. S'infuria: «Vadano dove vogliono. Se arriveranno in alto? Loro controllino, mica posso impedirlo, sono tre anni che mi rompono le scatole».
E quei due bonifici Siemens per 9,7 milioni di marchi che il 9 e 16 marzo 1995 partivano dai conti di Monaco e si mimetizzavano facendo il giro del mondo prima di arrivare nel suo portafoglio? E Italtel?
«Ancora? Italtel non aveva tecnologie».
Per la procura lei organizzò il pagamento dei denari.
«Sono stato un attore della Prima Repubblica, ma quel mio ruolo è finito la bellezza di 15 anni fa, è una generazione passata. Non è il caso di scrivere la storia di Italia e ora mi occupo di affari che nulla hanno a che spartire con il mondo pubblico che detesto».
Perché?
«Mi fa schifo: quando sei al potere tutti ti osannano, poi tutti ti vengono addosso. È una reazione che Gabriele Cagliari (presidente dell'Eni suicidatosi in carcere, ndr) non è riuscito a superare. Sa, eravamo ad Alcatraz insieme (ovvero il carcere di San Vittore, ndr) e ho cercato in tutti i modi di convincerlo, di evitare quello che poi ha fatto. Cagliari non ha voluto capire che era cambiato un mondo, mi diceva “ma io sono il presidente dell'Eni, l'aereo, i benefit”... Ho cercato in tutti i modi di convincerlo a fare il famoso passo. Doveva collaborare con il Pool, era folle difendersi dicendo “Non c'ero e se c'ero dormivo”. Invece si è infilato la testa in un sacchetto».
Lei all'epoca collaborò con i magistrati, perché oggi non fa lo stesso?
«Sa come dice un mio amico campano? "Mantieniti in superficie. Se vuoi campare non approfondire"». Grazie, Parrella.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it
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