Partito inesistente, il leader anche

Geronimo

E così Michele Salvati, dalle colonne del Corriere della Sera, l’altro giorno ha fatto un ulteriore affondo per la costruzione di quel Partito democratico che dovrebbe vedere la confluenza dei Democratici di sinistra e della Margherita. I primi eredi riottosi ma sentimentalmente legati al vecchio Partito comunista a tal punto da non riuscire a definirsi mai socialisti. La seconda, già di per sé una sorta di ogm della politica, è frutto dell’intreccio tra la sinistra democristiana nata nel ventre caldo dell’Eni di Enrico Mattei e un po’ di anime sparse provenienti dall’ambientalismo, dall’esperienza radicale, e dagli interessi lobbistici da sempre ruotanti intorno all’area bolognese del Mulino. Questi due partiti già hanno fatto in queste elezioni una lista unitaria, quella dell’Ulivo (potenza delle parole senza senso) che dovrebbe, secondo la visione di Michele Salvati, trasformarsi dopo le elezioni nel Partito democratico. Salvati sa meglio di tutti, e infatti lo scrive, che dire partito democratico è come non dire nulla né sotto il profilo culturale né sotto quello politico. Ed è per questa convinzione profonda che sollecita Rutelli, Veltroni e Fassino a farsi carico della definizione di un progetto culturale capace di tenere insieme, fondendole, storie politiche diverse ed alternative. E non è un caso che la sua sollecitazione non viene rivolta a nessuno dei democristiani che pure rappresentano la maggior parte della Margherita, perché il sogno di Salvati è quello di sempre della borghesia finanziaria e azionista del Nord d’Italia e cioè un partito liberaldemocratico di massa alternativo ai grandi partiti che l’Italia ha conosciuto e che rientravano nelle famiglie politiche che ancora oggi governano l’Europa, da quella democristiana a quella socialista passando per la crisi dei partiti comunisti. Nel tentativo di dare un suo iniziale contributo a questo famoso progetto culturale, Salvati parte da una negazione storica ritenendo l’Italia un Paese che «deve diventare civile» buttando così nel dimenticatoio, con una sola battuta, tutto il processo di sviluppo culturale, economico, istituzionale e politico di quarant’anni di vita repubblicana.
Niente paura e nessuna novità. È la solita arroganza di una minoranza intellettuale, l’azionismo, che tenta disperatamente da cinquant’anni di essere maggioranza del Paese senza mai riuscirci. Ma torniamo al contributo che Salvati dà al futuro progetto del partito democratico snocciolando una serie di obiettivi che lui definisce valori e che altro non sono che strumenti per un’ordinata vita civile, patrimonio comune, ormai, di ogni società industrializzata (il mercato, la concorrenza, la pubblica amministrazione, la centralità dell’istruzione e della formazione e via di questo passo). Salvati conclude che quella da lui disegnata altro non è che «una tavola di valori liberali, democratici, socialisti, solidaristici molto simile alla piattaforma della terza via di Tony Blair e del nuovo centro di Schröder». E ancora una volta Salvati salta a piè pari il contributo dei democristiani della Margherita e della loro esperienza storica. Marini, Castagnetti, De Mita lo tengano bene a mente.
Quel che ci sgomenta, però, è che Salvati tace che Blair con la sua piattaforma continua a definirsi laburista e il partito di Schröder continua a chiamarsi socialista. Salvati, e con lui la borghesia azionista, sanno che un partito socialista non avrebbe mai la maggioranza in Italia e tentano di fare uno smaccato gioco delle tre carte mettendo un po’ di contenuti di centro dentro un contenitore di ex-comunisti che non vogliono definirsi socialisti e che, così facendo, vengono incontro al disegno azionista di un partito liberale di massa mettendo a capo della coalizione un cattolico, Romano Prodi, totalmente ignorato dallo stesso Salvati nel suo appello. È la conferma che Prodi è solo una faccia dietro la quale si nasconde, insieme agli ex-comunisti e ai comunisti di oggi, il disegno azionista. Un disegno destinato al fallimento perché nella testa di questa minoranza intellettuale c’è un’idea elitaria della democrazia che non potrà mai sposarsi con le radici profonde che richiede un grande partito di massa.
Il cemento che la borghesia azionista utilizza per tenere insieme ciò che insieme non può stare sono gli interessi economici di alcuni gruppi imprenditoriali e il corto circuito finanza-informazione che da due anni a questa parte vede le maggiori banche italiane legate ad alcuni grandi gruppi editoriali. Le stesse banche che hanno distribuito a piene mani tra i piccoli risparmiatori i bond e le azioni Parmalat e Cirio e che oggi sono chiamate da Enrico Bondi a risarcire l’azienda di Collecchio con alcuni miliardi di euro. Dei vertici di queste banche nessuno nell’Unione ha mai chiesto le dimissioni perché, in realtà, non si possono chiedere le dimissioni ai padroni del proprio partito. Il disegno di Salvati è, sotto altre spoglie, quello di Agnelli, di De Benedetti e di Romiti agli inizi degli anni Novanta che generò Tangentopoli e produsse le macerie della politica che ancora oggi opprimono il Paese. Come si vede possono mutare le vesti del progetto, ma la sua illiberalità resta la stessa.

Ieri Di Pietro, oggi il circuito finanza-informazione con la sua visione elitaria e autoritaria del governo del Paese.

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