Milano - Li chiamano homebrewers. E per chi di inglesismi proprio non ne può più: produttori di birra artigianali. Sono davvero tanti, sempre di più: prendono informazioni su internet, dove spopolano blog e forum con consigli pratici, si procurano facilmente il materiale e il gioco è fatto. La birra commerciale nel frigo di casa lascia spazio a quella «fatta a mano», che magari prende il nome dalla moglie o racchiude nell’etichetta le iniziali del gruppo di amici con cui si è condivisa l’avventura.
Passione e curiosità. Come tutti quegli italiani che il vino se lo producono nelle proprie cantine, a volte in garage. Gli homebrewers però usano il luppolo al posto dell’uva, ma l’entusiasmo non cambia. «La filosofia è la stessa e il procedimento simile. Cambiano i materiali di partenza. - spiega Leonardo Di Vincenzo -. Fino a poco tempo fa sembravamo un movimento carbonaro, ora invece è diventata una moda». Anche lui ha cominciato in casa, poi ha aperto il microbirrificio Birra Del Borgo, a Borgorose (Rieti), e nel 2006 ha prodotto 1200 ettolitri di birra. Solo dieci anni fa, i microbirrifici come il suo in Italia erano appena cinque. Oggi se ne contano 190. Da che nasceva una ventina di anni fa negli Stati Uniti, il fenomeno degli homebrewers si è diffuso in Nord Europa e da lì, in Piemonte, arrivando a crescere fianco a fianco agli antichi e nobili vigneti del Barolo. Poi, pian piano, la voglia di fare da sé ha contagiato tutta la penisola.
«A questi produttori - precisa il direttore di Assobirra Filippo Terzaghi - mancano le tecnologie per il controllo della temperatura che permette di raggiungere la qualità della birra commerciale. Ma se rinunciano a imitare i big del settore puntando su prodotti particolari, magari speziati o aromatizzati alla frutta, possono trovare spazio nel mercato».
Teo Muffo è stato il primo ad aver battuto questa strada. Suoi maestri, dei produttori belgi da cui andava a comprare la birra per il suo locale, Baladin a Piozzo (Cuneo). «Ho cominciato a produrre nel 1995, ma gli inizi non sono stati per niente facili - racconta Muffo - la gente non si fidava, c’è voluto del tempo per far capire il mio prodotto. Soprattutto alle donne». E se alla fine lui c’è riuscito, altri hanno dovuto rinunciare. «L’entusiasmo a volte rischia di creare facili illusioni sulla redditività di questo lavoro - chiarisce Agostino Arioli del Birrificio Italiano di Lurano Marinone (Como) - troppa gente si butta con approccio mercantilistico».
Nel 2000, lui e altri colleghi hanno fondato Unionbirrai, «una società di mutuo soccorso» - come amano definirla - con lo scopo di superare insieme i problemi comuni e diffondere la cultura della birra artigianale. In sette anni i soci sono diventati 500, più tutti gli appassionati che frequentano i corsi organizzati dall’unione: da quello tecnico pratico per homebrewers, passando per il Progetto imprenditoriale microbirrificio, fino al corso di degustazione. «Sono queste persone il futuro della birra in Italia - sentenzia Aironi - E mi rassicura vedere che il numero degli iscritti aumenta di anno in anno».
Non è l’unico a pensare che nel Belpaese la cultura stia cambiando. Anche se nella classifica dei consumatori di birra l’Italia è in coda rispetto ai cugini Europei, nell’ultimo anno il consumo interno è aumentato del tre per cento e l’export di ben nove punti percentuali. Il motivo lo rivela una ricerca condotta da «Makno» per Assobirra: nei pasti fuori casa durante la settimana, gli italiani preferiscono la birra. Più corretto parlare di un testa a testa, visto che la battaglia tra il vino e la bionda si combatte su un punto percentuale.
Sembra un’eresia? La prossima volta che andate al ristorante, provate a chiedere la carta delle birre. E se siete fortunati, potrebbe arrivare un cervoisier a spiegarvi gli abbinamenti migliori con i piatti che avete ordinato.
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