Perché l’impresa di Pisacane era destinata a fallire

Caro dottor Granzotto, ricorre quest’anno il 150° anniversario della tragica impresa di Carlo Pisacane. In provincia di Salerno è tutto un susseguirsi di lodevoli iniziative, commemorative dell’anzidetta avventura, che costituisce a pieno titolo un esempio sfolgorante dell’epopea risorgimentale. Mi vado chiedendo, da profano qual sono: perché don Peppino Garibaldi riuscì nel compimento, soltanto tre anni dopo, della medesima operazione? Non mi convince la vulgata storiografica, secondo cui fu il diverso appeal del condottiero nizzardo, unito all’inarrestabile forza della sua armata, a far la differenza tra i due episodi. Propenderei a ritenere che la spedizione dei Mille fu meglio pianificata e «concertata» a livello politico, sia interno che internazionale. Ma sull’argomento gradirei, però, conoscere il suo illuminante parere.

Mi ci tira dentro a forza, caro Marchetti. In occasione delle celebrazioni per il bicentenario della nascita di Peppino Garibaldi mi ero infatti imposto il silenzio. E ciò al fine di non steccare, nemmeno con la mia flebile, impercettibile, irrisoria voce, nel trionfalistico zumpapà sull'Eroe dei Due Mondi. Promesse di marinaio. Mezzo marinaio, visto che lei mi chiama ad esprimermi non tanto su Garibaldi, quanto su Carlo Pisacane, il «bel capitano» con «gli occhi azzurri e coi capelli d'oro». Un sant'uomo, Luigi Mercantini. Ma come poeta, zero. Basterebbe la sua Spigolatrice di Sapri - eppure un classico della poesia patriottica, eppure mandata a mente da centinaia e centinaia di migliaia di scolari, e guai a non sospirare all'ultimo: «Eran trecento, eran giovini e forti, e sono morti!» - a farci disamorare del Pisacane. «Me ne andavo il mattino a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare, era una barca che andava a vapore e alzava una bandiera tricolore». Ma come si fa? Sembra roba da Cochi e Renato! E quando lei, la spigolatrice, si fa sotto chiedendo: «Dove vai bel capitano?», cosa risponde il bel capitano? «O mia sorella vado a morir per la mia patria bella». Rime così, rime come: «Quel giorno mi scordai di spigolare,? e dietro a loro mi misi ad andare» fanno cadere le braccia anche al più coriaceo cultore dell'epopea risorgimentale. Figuriamoci a me.
Tornando a bomba, Carletto Pisacane, un cuore grande così, un generoso, un martire dell'Unità d'Italia, era vocato all'insuccesso, caro Marchetti. Primo perché affidò l'intendenza a quel pasticcione di Rosalino Pilo (per ben due volte perdette schioppi e munizioni destinati all'impresa). Secondo perché espugnato il carcere di Ponza, ne fece uscire, arruolandoli, i detenuti. Solo sei dei quali erano «politici». Il restante, circa 300 individui, criminali comuni. Terzo perché, una volta preso terra nel Cilento, con quei trecento brutti ceffi al seguito Pisacane non riuscì a convincere gli abitanti di Sapri, Torracca e Casalbuono che erano lì per fare l'Italia e non per spolparli ben bene.

Quarto perché ai cilentini «'o Re Nasone» andava benissimo e non sentivano il bisogno di sostituirlo con un altro Re che non conoscevano, i cui sudditi parlavano ostrogoto e per i quali l'olio, il sublime olio cilentino, era nient'altro che un purgante. E così, alla Certosa, allorché «tra 'l fumo e gli spari e le scintille? piombaro loro addosso più di mille», l'impresa, come dicono gli spagnoli, fracasò.

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