Politica

PERCHÉ LASCIO LA CASA

PERCHÉ LASCIO LA CASA

Da qualche tempo il mio impegno principale sui giornali non è esprimere spontaneamente pensieri e osservazioni, ma rispondere. Rispondere a critiche, a polemiche, ad appelli. Mi pare giusto quindi anche nel consueto appuntamento del lunedì con i miei lettori, rispondere a quanti non sono lontani dal mio stesso orientamento politico e possono, talvolta con sconcerto, vedere che esso non corrisponde alle coordinate di riferimento della politica italiana. E, dal momento che il malumore è diffuso, la discussione, i riposizionamenti, non possono essere improvvidamente interpretati come tradimenti - che avevano un senso finché esistevano partiti, come famiglie, identità, religioni, e non piante e giardini come ulivi, querce, margherite, o denominazioni adatte al tifo calcistico - talché nell'Ulivo si può essere liberali, repubblicani, democristiani, comunisti, socialisti, in Forza Italia si può essere liberali, repubblicani, democristiani, socialisti, radicali, e anche ex comunisti. Così troviamo un socialista a destra e uno a sinistra, un repubblicano a destra e uno a sinistra, e democristiani dappertutto, da sinistra a destra e anche nel centro che non c'è. Poi abbiamo i socialisti a tempo, che sono stati, o stanno, un po' con la destra e un po' con la sinistra, anche nella stessa famiglia, e altri socialisti, come i calabresi che, appena finite le elezioni con la destra, li ritroviamo a sinistra, insieme a Mastella (piuttosto stabile, ma critico) e Dini (anche lui piuttosto stabile, ma acritico), accompagnato dalla moglie che sembrerebbe di destra ma sta a sinistra. Insomma, con il bipolarismo si è sostituito l'essere con lo stare. Per mille ragioni, e con mille contraddizioni, tra le quali, lampante, è quella di Di Pietro che è di sinistra ma sta a destra. Memorabile la sua battuta: «Se io sono in un corteo con un no global il mio impulso non è manifestare con lui ma bastonarlo».
D'altra parte, senza che se ne possa discutere la buona fede, il primo ad assumere questa posizione fu il fondatore di questo Giornale, Indro Montanelli, uomo certamente, integralmente, di destra che, ad un certo punto, per irrimediabile insoddisfazione, si trovò a sinistra. Si trovò, senza cambiare la sua natura, ma diventando un beniamino dei suoi antichi nemici e avversari. Nessun dubbio che non era di sinistra, stava a sinistra. Gran parte del tempo da me dedicato a respingere, più a sinistra che a destra, ma a uomini di destra che stanno a sinistra (come Marco Travaglio) l'accusa di essere «voltagabbana», è dunque tempo perso. Il concetto non ha più legittimità, e non perché io in questi ultimi tempi non porti la giacca, ma perché non c'è nessuna giacca da cambiare. Ci sono solo disagi da una parte e dall'altra. E oggi purtroppo, come aveva profeticamente avvertito Montanelli, più da una parte. Il disagio si può manifestare in diversi modi, magari nella residua speranza di poter ancora fare qualcosa. Lo vediamo per esempio nell'atteggiamento di Renato Brunetta, perfettamente consapevole che è troppo tardi, ma non più disponibile a tacere. Così, certo della sconfitta del centro-destra, si accontenterebbe di conservare non il 51% di una rissosa e incongruente coalizione, ma il 25% della sola Forza Italia, ormai un miraggio: «Se manteniamo il 25% immaginate quante cose si possono fare all'opposizione». Fra le altre cose, Brunetta aveva anticipatamente contraddetto Diaconale che continua a esprimere una visione convenzionale del centro-sinistra, non condivisa da influenti esponenti del governo quando si parla di nomine. Brunetta infatti, mentre spiegava che il governo ha «mandato avanti» personalità del centro-sinistra, esemplificava: «L'amico Urbani nella mia Venezia ha nominato solo uomini loro, basti pensare alla Biennale, se non avevano le medaglie sovietiche non esistevano». Inutile denunciarlo, come io ho fatto tre anni fa. Nonostante i segnali, la consapevolezza minoritaria espressa da Brunetta e la mia percezione della desolata condizione del centro-destra, voglio concedere, e condividere, la speranza di Diaconale che non vi sia una «evaporazione» (come io l'ho definita) della casa delle libertà. Ma se anche questo fosse, e la casa delle libertà restasse in piedi, non bruciando come io ho indicato in metafora, Diaconale mi vorrà concedere che in essa si respira un cattivo odore, forse quello stesso per il quale egli auspica che «al momento del voto i delusi dell'area moderata si tapperanno il naso». Il mio cambiare stanze, il mio trasferimento, non dipendono dalla mia volontà, almeno quella politica. E se critiche, ostacoli e obiezioni io ho avuto da esponenti del centro-sinistra per la mia scelta, molti di meno sono stati, come sarebbe stato pensabile, i critici nel centro-destra.
Non ho avvertito (se non nelle banali considerazioni di qualche isterico opinionista) la «delusione di chi mi ha seguito ed eletto in passato e che oggi si può sentire tradito dalla mia scelta di recitare qualche decina di rosari sotto l'altare dell'Unione prodiana pur di ottenere l'indulgenza per la prossima legislatura». Non è solo questione di buona educazione e di comprensione da parte di elettori delusi (non essendovene più di illusi); è perché la mia sensazione è diffusa e condivisa. E si gioca tutta in questi mesi, nel ruolo importantissimo e anfibio, postmontanelliano, ma non personale, tutto politico, di radicali e socialisti e anche, se Diaconale permette, di liberali che vogliono quello che, a fianco del suo appello di sabato 10 settembre, chiede il giovane e agguerrito Pietro Mancini. È chiaro, ed è l'unica strada se quell'area si fortificherà e sarà, laicamente, competitiva tra postdemocristiani e postcomunisti. È un problema di coraggio per Mancini, e suo zio Giacomo anche a sinistra lo ha dimostrato, votando alle politiche del 1996 una naufragata lista Pannella-Sgarbi, che Diaconale ben ricorda e che Berlusconi non comprese fino in fondo: «Ma, questo coraggio, i socialisti dell'Unione potrebbero tornare a dimostrarlo, nei prossimi mesi, mettendo da parte timidezze e complessi di inferiorità, e alzando la voce sulle tante questioni, di cui né il Professore, né i leader della Quercia parlano mai...; e, sulla giustizia, i socialisti lasceranno senza battere ciglio, che le idee-guida siano quelle di Luciano Violante e di Giancarlo Caselli?».
Per queste stesse ragioni, e non con «lettere, invocazioni e suppliche», che sono solo artifici retorici io, cacciato dal governo, ho fatto la mia scelta. Ma non ho pensato, neanche per un momento, di cambiare le mie idee o di fare atti di sottomissione che non fossero spiegazione di atteggiamenti fondamentalmente inurbani, insulti, o aggressioni verbali da me riservati a uomini del centro-sinistra, oltre le legittime critiche. D'altra parte, questa è la ragione per la quale Berlusconi, alla fine, decise di sospendere la mia trasmissione Sgarbi quotidiani, ben prima di cancellare Biagi e Santoro. Mi voleva, forse su suggerimento di Letta, più moderato che, nel mio caso, è una richiesta contro natura. Anche se bipartisan. Alla fine di un mio forte intervento in un dibattito alla Camera, una decina di anni fa, fui avvicinato a distanza di pochi minuti da D'Alema e da Berlusconi. Entrambi, con i complimenti, mi fecero la stessa raccomandazione: «Benissimo, ma non dire le parolacce». Mi hanno convinto: di queste sole mi sono scusato, non supplicando nessuno, ma chiedendo che il mio linguaggio colorito non fosse di ostacolo al tentativo di far sopravvivere il progetto politico ch'io sopra ho indicato, in difesa dei diritti dell'individuo e a tutela del patrimonio artistico, questioni così universali da non potersi esaurire in una sola parte politica, ma dovendole nutrire entrambe.
Se una delle due però, e Pannella l'ha capito meglio di me, rinuncia al suo compito storico, e si avvia a dissolversi (mentre soltanto la Lega si rafforza, anche su questioni di identità nazionale), non resta che tentare di muoversi e testimoniare nello spazio in cui la politica mostra di potersi esprimere. In quel luogo, infatti, convivono e si contrappongono Andreotti e Caselli, Pellegrino e Violante, Mastella e Bertinotti, Craxi e Di Pietro, in una complessità che il centro-destra non è stato capace di consentire e di accogliere. Altrimenti non si spiegherebbe che, da una parte, fra mille contrasti, tutti si ritrovano e dibattono; e dall'altra parte, sono caduti o spariti, pur senza aver espresso volontà dissonanti, Mario Monti, Renato Ruggero, Emma Bonino, Tiziana Parenti, Marco Pannella, Filippo Mancuso, Marco Taradash, Francesco Cossiga, Piero Melograni, Saverio Bertone, lo stesso Ferrara, e, con loro, anche Sgarbi, impertinente ma sempre leale, e più di ogni altro pronto a esporsi per idee in cui ha creduto e crede, non temendo di essere chiamato servo, sia pur di un padrone che non gli ha mai chiesto nulla. Non mi è stato consentito neppure di essere servo, se lo avessi voluto. Sono stato cancellato, ignorato, isolato. E ho visto la casa bruciare. Oggi non sono pentito, nessuno mi vedrà battermi il petto. Ma se fosse vero, come indica Diaconale, che «a sinistra per i laici non c'è politica», vorrei che mi dicesse dove, a destra, per lui, per me, per Pannella, questo spazio c'è stato, se non come temporanea concessione, quasi una grazia. Non mi piacciono le suppliche e non chiedo grazie. Ma, ai miei esigenti lettori, che conoscono il mio pensiero, ripeto ossessivamente le parole di Churchill: «Ci sono uomini che cambiano idee per il loro partito, e altri che cambiano partito per le loro idee». Sto dove sono sempre stato: con me stesso.

Ma non intendo farlo in solitudine, o ritirandomi.

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