Nella baracca che fa da centro di ristoro, bar sport, casa del popolo, oratorio, centro di smistamento, punto d'aggregazione, fra pacchi di bicchieri e piatti di carta, fra salamini e pentoloni fumanti di tè e caffè, hanno appeso un bel disegno. Un angelo, tipo quelli di Raffaello, di buona fattura, tratto a pastello, di tre quarti, volto soave incorniciato da boccoli biondi. A far da contrasto con le linee sinuose e morbide, la scritta spigolosa «Squatter Torino». Poco distante, fra i mille e più striscioni che cadenzano - come una sorta di via Crucis del rincrescimento - il percorso che porta dall'inizio della valle ad arrampicarsi fin qui, sta un manifesto grande e beffardo di un bel culo di signora, nudo, in spregio al freddo da «ghiaccia» dantesca. Sopra, calcata a spray, la scritta minacciosa «No Tav».
Tutto fa brodo. Dell'idea che tutto faccia brodo, dall'angelo al fondoschiena, purché sia «No Tav», son convinti i valsusini, tutti gioiosamente incazzati neri contro governo, Regione, presidenza della Repubblica, destra e sinistra e chi più ne ha più ne metta «e che nessuno s'offenda se non allunghiamo la lista dei colpevoli».
Nella confusione che fa di ognuno un nemico, nel calore di chi si stringe contro tutti e tutto, nel sentimento cameratesco di essere rimasti gli ultimi a presidiare la fortezza, s'annida l'unica ragione del cuore che fa dei valsusini un sol uomo: l'ira. L'ira manichea che divide i giusti dal «mondo bastardo che fa la pelle ai poveretti».
Qui, oggi, trovi la parrocchiana che ha abbandonato il bollettino delle missioni per sfogliare il Manifesto, la mamma che ha attaccato la striscia «No Tav» al passeggino, il pasticciere che fa la spola dalla bottega al campo, arzillo di offrire le leccornie «agli amici che han fatto la notte e che vorranno anche far la colazione», il sindaco socialista in tuta da sci e scarponi d'arrampicata che ti fa tutta la lezione su «quanto sia bello stare fra di noi la notte, intorno al fuoco. Perché noi siamo la gente, non ci arrenderemo e staremo qui fino a Pasqua, se necessario».
Il balletto dei numeri. «L'altra sera eravamo quindicimila», assicura uno di Torino che s'è preso le ferie per essere qui. E lo dice con lo stesso orgoglio di un ragazzotto che della stessa notte e dello stesso episodio racconta: «Qui l'altra sera eravamo in millecinque». Potenza della relatività dei numeri che fa di ogni caso una conferma che qui stiamo «dalla parte della verità, perché noi vogliamo vivere e quelli ci vogliono ammazzare tutti». Potenza della confusione che non vuol sentir ragioni e che fa di tutto un fascio d'odio, con rimandi pindarici alla storia patria in cerca di un'identità da affibbiare a questo amalgama variopinto di perpetue e autonomi, perché, come dice la voce dell'innocenza di un bambino, «Son qui come era qui mio nonno, un partigiano».
«Nassirya, Nassirya». Di ragionamenti qui non se ne fanno più. Ed è un peccato perché - forse - qualche sprazzo di lucida razionalità si potrebbe ancora trovare. Ma ormai sono tutti oltre. Il sindaco di Venaus lo dice sfoggiando quella autorità che conferisce a lui e a molti suoi colleghi la fascia tricolore che porta sopra la giacca a vento: «Ai tavoli delle trattative non si conclude nulla». Così, lavatosi la coscienza di chi ai tavoli ci dev'esser pur stato, oggi è fra i «suoi» paesani, pronto ad aizzarne gli istinti col forcone più che a calmarne gli spiriti con fredda dialettica. Con linguaggio più pittoresco del primo cittadino ribadisce il concetto un no global mentre appende sulla barricata lo striscione «Fora d'le bale»: «Viviamo in uno stato fascista. Siamo contro la militarizzazione della valle». Conseguenza logica è dunque che vi sia la barricata di sterpi e legni a ostruire il passaggio delle ruspe della società Ltf (quella che ha l'appalto per i lavori), meno però che una ragazza del posto si arroghi il diritto di scattare una fotografia. Quella, cappotto alla moda, viso pulito da ragazza della porta accanto, si sente intimare: «Cancella la fotografia». Perché? «Sei della Digos».
Nessun dubbio. Se sia vero o no che esiste un problema ambientale, se sia vero o no che ci sia pericolo per la salute, se sia vero o no che vi siano infiltrazioni terroristiche dopo le due bombe inesplose e i proiettili recapitati alla presidente Mercedes Bresso, se sia vero o no che il Corridoio 5 sia indispensabile, qui non ne parla - ormai - più nessuno. Sono già al di là di ogni ragionevole dubbio od osservazione di merito, nella fase dell'incomunicabilità, dell'esasperazione che ha portato i ragazzi dei centri sociali a gridare l'infamante «Nassirya! Nassirya!» in faccia ai carabinieri. Giovani delle forze dell'ordine qui per giornate intere ad assiderare a temperature polari.
Pecoraro santo subito. «Arriva Alfonso, arriva Alfonso». Arriva Alfonso e sale su una seggiola perché tutti lo vedano, tutti sentano «l'unico politico che sia venuto fin qui», il segretario dei Verdi italiani. Fa il suo discorso intervallato da applausi di mani gelide che si riscaldano ogniqualvolta le manda a dire a Pisanu, a Casini, a Mercedes Bresso, a Lunardi, a chiunque non capisca che «qui non ci sono terroristi, ma la gente». E la gente lo acclama, «Santo subito, santo subito».
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