Un po’ di luce sulla selva nera di Heidegger

Il lettore che vuol sapere che cosa ha pensato Heidegger deve leggersi i 102 volumi della Martin-Heidegger-Gesamtausgabe (l’opera omnia). Molti dei quali devono ancora essere stampati. Se invece vuol sapere che cosa ha fatto Heidegger, deve leggersi questo volume, il 59º della serie: Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita. 1910-1976, a cura di Nicola Curcio (il Melangolo, pagg. 750, euro 65). Qui c’è quasi tutto quel che di una persona ci può essere in un libro, cioè discorsi, interventi, annunci, appelli, saggi, dichiarazioni pubbliche, smentite, lettere, recensioni, commemorazioni, poesie, colloqui, curricula, biglietti di saluto, di congratulazioni e di ringraziamento: 290 testi tra editi e inediti. Manca quel che riguarda la Venere pandemia consumata dal nero caprone sulla bianca capretta (per usare termini shakespeariani), l’angelica studentessa innamorata del professore, Hannah Arendt. C’è solo una lettera a lei, nella quale Heidegger si discolpa dell’antisemitismo di cui è accusato, oltre a lamentarsi della «desolante incomprensione» incontrata dal suo pensiero. Giusto di gloria dispensiero è Tempo, direbbe Foscolo. Ma anche adesso (allora), lamenta Heidegger, nessuno lo ha capito.
È vero che il suo pensiero non brilla per limpidezza. Se ne ha un assaggio nella famosa intervista allo Spiegel del 23 settembre 1966, nella quale, interrogato sul dominio del Ge-Stell, cioè della tecnica che sradica l’uomo, risponde: «Proprio nell’esperienza di questo esser posto dell’uomo da qualcosa che egli stesso non domina, gli si palesa la possibilità di vedere che l’uomo è richiesto dall’essere». Già, perché l’essere senza l’uomo non sa stare (come Dio per Meister Eckhart, e non è un caso): l’uomo gli serve per «la sua rivelazione, custodia e configurazione». Comunque, una volta che la possibilità si sia palesata, non succede niente lo stesso. Perché la filosofia, dice Heidegger a quelli dello Spiegel, non può far niente, «non potrà produrre alcun mutamento immediato dell’attuale condizione del mondo». Ma come, dicono quelli, straniti, ci sono stati Kant, Hegel, Nietzsche e Marx (mettiamoci noi Freud): tutti tedeschi che hanno cambiato il mondo. Non potrebbe fare uno sforzo anche lui? Ma lui: No. «Solo un Dio ci può salvare». Poiché però con un monaco buddhista aveva parlato di un metodo filosofico completamente nuovo, gli intervistatori lo sollecitano. Ma lui: «Al mistero della strapotenza planetaria dell’impensata essenza della tecnica corrisponde la provvisorietà e inapparenza del pensiero che cerca di meditare su questo impensato». Cioè nisba.
Questa intervista, che qui è riprodotta nella versione autentica di 27 pagine, non è tanto importante per i rapporti di Heidegger col nazismo, come si crede, quanto per le preziose scorciatoie che egli fornisce (anche in altri pezzi) sul suo pensiero. Sulla prima cosa egli si difende del resto gagliardamente, come fa un po’ in tutto questo libro e specialmente nella lettera a Marcuse del 20 gennaio 1948, che contiene fra l’altro la giustificazione che è accusato di non aver mai data dei suoi comportamenti. Dice anzitutto che non bisogna giudicare l’inizio del nazionalsocialismo dalla sua fine (si può dirlo anche del fascismo); poi che si aspettava da esso «un rinnovamento spirituale, una conciliazione dei contrasti sociali e la salvezza dell’occidente dai pericoli del comunismo». Aggiunge che nel 1934 riconobbe il suo errore politico e si dimise da rettore, ma che, come dice Marcuse, non ha mai ritrattato pubblicamente, perché ciò «avrebbe mandato alla forca me e la mia famiglia». Una ritrattazione dopo il 1945 lo avrebbe invece accomunato ai volgari cambiacasacca con cui non ha niente da spartire.


Se però si legge L’autoaffermazione dell’università tedesca si assiste a un delirio che era tipicamente nazista ma di cui non poca ispirazione e sostanza è rimasta nella dottrina e nell’atteggiamento di Heidegger, specie dopo la svolta, quando l’aggancio alla filosofia contemporanea lascia il posto al pieno rayonnement della natura, ossia del pathos medievaleggiante heideggeriano. Importanti comunque, per il suo pensiero, i pezzi Che cos’è l’essere stesso?, Parole di Hölderlin, La ricerca di Wilhelm Dilthey.

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