Nel campo della politica estera, il fatto che le strategie del predecessore di Obama si siano rivelate un disastro, non vuol certo dire che l'alternativa sia oggi molto migliore. Vi sono alcuni problemi a livello mondiale ai quali è impossibile dare risposte semplicistiche. Così non deve sorprenderci se Barack Obama, acclamato in tutto il mondo come una boccata d'aria fresca dopo la presidenza di George W. Bush, abbia finora raccolto pochi risultati di cui potersi vantare, a quasi un anno dalla sua entrata in carica. Obama ha avuto l'incarico di ripulire e di rimettere in ordine un'enorme confusione.
Prendiamo, per esempio, il programma nucleare dell'Iran. Bush è stato giustamente criticato per aver rifiutato di coinvolgere nel dibattito l'Iran, dando così modo alla pubblica opinione di continuare a pensare che non la prevaricazione messa in atto da Teheran, bensì l'intransigenza di Washington, rappresentasse il vero ostacolo.
Barack Obama ha fatto del dialogo intransigente e duro con la Repubblica islamica uno dei punti centrali della sua agenda di politica estera, e come minimo è riuscito a mettere in chiaro che la parte non interessata a intavolare trattative è l'Iran, non gli Stati Uniti. Tuttavia, l'Iran continua imperterrito a produrre uranio arricchito, e non si riesce a intravedere una soluzione a breve termine.
Ancora. Consideriamo l'apertura di Obama nei confronti dei russi, con i quali il segretario di Stato Hillary Clinton ha letteralmente «premuto il pulsante di reset», dopo che le relazioni bilaterali tra i due paesi, negli anni di Bush, avevano raggiunto il nadir, il punto più basso degli anni del dopo-guerra fredda. La squadra di Obama ha riconosciuto correttamente che Bush si era messo senza alcuna necessità in totale antagonismo con la Russia su qualsiasi argomento, dai trattati per il controllo della proliferazione delle armi allo scudo missilistico, dall'espansione della Nato alla guerra in Irak. I colloqui avviati in merito alle scorte nucleari sembrano promettenti, ma i russi si sono dimostrati finora solo un poco più disponibili a collaborare con Obama sulla questione nucleare iraniana di quanto non lo fossero stati con Bush, mentre d'altro canto continuano ad agire impunemente come «bulli» nei confronti degli ex Paesi satellite.
Per quanto riguarda Israele e i Territori palestinesi, non dimentichiamo che Obama è entrato in carica dopo una mini-guerra brutale a Gaza, che ha lasciato dietro di sé solo le rovine fumanti di un cosiddetto «processo di pace» che l'amministrazione Bush era riuscita a raffazzonare in qualche modo all'ultimo minuto. Malgrado, o forse proprio a causa della sua presa di posizione - moralmente sana, ma politicamente discutibile - sugli insediamenti, il presidente americano è stato quasi ogni volta o raggirato da Benjamin Netanyahu o deluso dalla traballante e continuamente in calo autorità di Abu Mazen. A George Mitchell, l'inviato personale di Obama in Medio Oriente, è stata affidata una missione impossibile: quella di promuovere i colloqui tra due parti che non vogliono e non sono in grado di fare alcuna concessione significativa.
Poi c'è la questione della Corea del Nord, che apparentemente Obama ha messo in secondo piano, continuando sostanzialmente la strategia messa in atto invano da Bush di cercare di convincere con le buone Kim Jong Il a tornare al tavolo dei colloqui a sei, nella speranza che gli alleati putativi di Pyongyang a Pechino riescano a dare una mano facendo pressioni su Kim perché rinunci al suo sogno nucleare una volta per tutte. Ma finora Obama non ha ottenuto un bel nulla su questo fronte.
Per ultimo, e certamente il fatto più grave: Obama ha ereditato una situazione esplosiva in Afghanistan e in Pakistan. Obama ha cercato di individuare una qualche strategia per riuscire a gestire il regime recalcitrante e corrotto di Hamid Karzai a Kabul e lo sciagurato governo di Asif Ali Zardari a Islamabad. Con il rifiuto di adottare l'abitudine di Bush a tenere video conferenze con Karzai, l'approccio passivo messo in pratica da Obama sembra essere riuscito soltanto ad aggravare le paranoie del leader afghano e a consolidarne le tendenze peggiori.
In sintesi, il fatto che il modo maldestro e inutilmente antagonistico di condurre la diplomazia di Bush si sia rivelato un miserevole fallimento, non significa certo che un atteggiamento contrario possa aver successo. Ma siamo ancora agli inizi, e Obama, che è un leader intelligente, acuto e ricettivo, è ancora in grado di poter cambiare rotta e di capovolgere la situazione.
*Vicedirettore di Foreign Policy
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